Il termine “disabilità” indica un’assenza di “abilità”: sin nella sua formulazione linguistica – primo strumento di potere dell’uomo – si presenta come il prodotto di un giudizio di valore. Ma con quale criterio è possibile discriminare fra chi è abile e chi non lo è, e secondo quali procedure questo limite è negoziato e poi fissato in convenzioni? L’autrice avanza provocatorie notazioni metodologiche di quest’ordine, per rimettere in discussione la legittimità del presupposto che discrimina fra individui umani (basato su un meccanismo di esclusione) e poter discutere di “Etica e disabilità” come forma piena dell’umano, tenendo conto dei Disability Studies sviluppatisi a livello internazionale. La problematicità rilevata dall’autrice interseca vari livelli: epistemologico, ontologico, politico, etico. In particolare, la tesi del volume ruota attorno al rapporto fra giudizio etico e conoscenza: discernere tra “vero” e “falso”, “bene” e “male”, investe il senso stesso di un”’etica” capace di occuparsi non solo di ambiti specifici, ma di peculiari modalità della vita umana.