USCIRE DALL’ISTITUZIONALIZZAZIONE DELLA DISABILITÀ E RIPENSARE I SERVIZI, RADICATI NEGLI AMBIENTI DI VITA.

Medeghini, F. Bocci, A.D. Marra, G. Vadalà. Laboratorio di Ricerca Disability Studies (GRIDS) e Inclusione Scolastica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma 3. 

in Appunti sulle politiche sociali. www.grusol.it (aprile-giugno, 2020)

La presa di posizione da parte di diverse associazioni come la Ledha, insieme al Forum Terzo settore Lombardia, Uneba Lombardia, Alleanza, Cooperative, e la FISH, è una denuncia forte e necessaria per la drammatica situazione delle persone fragili e disabili, ma non solo. Le richieste di intervenire immediatamente sulla salute, sulla commissione di indagine, sulla revisione dell’intero sistema di accreditamento istituzionale delle strutture residenziali e l’incontro con le Regioni sui requisiti dei Servizi per l’abitare e servizi per l’inclusione sociale delle persone con disabilità sottolineano l’urgenza dei cambiamenti inerenti le prospettive politiche attivate sino ad ora.

Ciò che si è visto e che stiamo vedendo (le difficoltà, le incertezze, l’abbandono delle persone fragili, anziani e disabili, ma non solo nell’affrontare il coronavirus) conferma la crisi delle prospettive politiche e del sociale già presenti negli anni precedentiGli Studi sulla Disabilità ed il Movimento delle Persone con disabilità, infatti, hanno evidenziato da tempo questa situazione senza che ci fosse un cambiamento

Forse, solo adesso, ciò che si presenta è talmente macroscopico e di dominio pubblico da non poter più essere negato. I diritti umani enunciati dalla Convenzione ONU sono espressione di un paradigma (inclusivo, sociale e relazionale) che non è riservato alle persone disabili, ma riguarda tutti. Disabili e non (ancora) disabili. Si è visto, lo sapevamo, ma la cronaca drammatica lo rammenta, che tutti sono, siamo, a rischio fragilità. In quanto essere umani. Ovvero, ci si è resi conto che tutti possiamo diventare esclusi, parte del diverso, abbandonati in virtù di una cultura neoliberista dominante e trasversale che fa oscillare il pendolo verso l’espulsione dell’altro, del diverso, del più fragile e che lascia da parte l’indipendenza delle persone, la libertà di compiere scelte anche dai più gravi (e/o i più anziani).

Siamo verso l’abbandono secondo una visione discriminatoria che fonda le sue radici sull’abilismo e su una lettura neutrale dei contesti; verso l’esercizio della delega (la cultura del sociale è orientata ad affidare ai servizi la gestione delle vite che riguardano le persone con disabilità, mentre le politiche chiamano in causa il sociale basandosi su un’interpretazione economicista della sussidiarietà); verso l’affermazione della delega alle figure specializzate (medici, insegnanti specializzati per il sostegno, formatori) come elementi sostitutivi richiesti dal sociale e dalle politiche burocratiche e di controllo che si ritirano dalla responsabilità verso un reale progetto di vita per le persone. Tutto ciò – e la crisi che lo evidenzia – non sono il frutto solo dell’oggi, ma l’esito anche del prima che, ora, viene portato alla luce:    

  1. la completa delega delle politiche e del sociale a un egemonico apparato culturale bio-medico e normativo basato sulla gravità (concetto, arbitrario e contrario ai precetti della Convenzione ONU) per la gestione delle persone fragili e con disabilità;
  2. il processo incrociato della politicizzazione della medicina e della medicalizzazione della politica (Esposito, 2017);
  3. la scelta dell’ospedalizzazione come centro di riferimento e come concettualizzazione dei servizi;
  4. la conseguenza dell’abbandono del territorio, sradicando il percorso di vita delle persone per concentrare i servizi;
  5. la burocratizzazione del progetto di vita;
  6. la conferma dell’istituzionalizzazione con la creazione di luoghi speciali ed esclusivi;
  7. la diversa formazione dell’educatore fra area sanitaria e sociale.

Diverse associazioni e servizi stanno tentando l’uscita dagli attuali vincoli e dalla logica politica in atto per orientare progetti di vita sociale in grado di dare voce alle persone con disabilità. Tutto ciò viene frenato dall’impostazione della politica assieme a servizi che si mantengono sull’assistenza, nonché dall’egemonia bio-medica, dalla progressiva istituzionalizzazione o dalla presenza di dominio e di violenza nei servizi.Da una parte si parla molto del cambiamento, si sottolinea che l’attuale situazione non sarà come prima ma vagando nel nulla e senza molte idee e, dall’altra, viene difeso ciò che è stato, utilizzando ciò che sta avvenendo per mantenere la prospettiva di prima. Questa prospettiva deve essere contrastata, lasciando posto così al cambiamento delle idee e della cultura bio-medica individuale caricata sulle persone con disabilità, per ripensare i servizi.

Ripensare i servizi

L’attuale organizzazione dei servizi è ancora una struttura sostitutiva con il ruolo di controllo sociale esito della delega della politica e del sociale: da qui, le radici dei servizi non si orientano ad una vita che lasci tracce e connessioni nelle relazioni e scelte sociali delle persone con disabilità, bensì alla standardizzazione del corso di vita per le persone con disabilità attraverso politiche incrementali. La prospettiva inclusiva (Medeghini, Vadalà, Fornasa, Nuzzo, 2013), con il suo riferimento all’adultità, pone domande immediate alle politiche dei servizi, al pensiero e alle conseguenti progettazioni che li guidano: qual è, ad esempio, il ruolo dei servizi nella costruzione dell’appartenenza sociale? E di conseguenza, quale deve essere la loro natura e in quali forme deve manifestarsi? E ancora, come possono collocarsi all’interno delle linee tracciate dalla Convenzione ONU (2006) sui diritti per le persone con disabilità? È sufficiente istituire servizi alla persona con disabilità oppure se si deve assumere un pensiero progettuale che combini l’attenzione alle persone con investimenti sulle reti di territorio e con servizi nella comunità? Ad eccezione di alcuni servizi, questi interrogativi non hanno risposte adeguate ai diritti e al sociale perché le persone con disabilità sono destinate ad affrontare la propria esistenza a contatto con un luogo altro (Foucault, 1994), specifico e irreversibile.

Le persone con disabilità, infatti, sono inserite in luoghi specifici, funzionalmente diversi da quelli in cui vivono le altre persone: ne sono un esempio gli studi degli specialisti che periodicamente valutano l’evoluzione delle condizioni della persona e indicano in quali servizi devono essere inseriti, le aule di sostegno, le scuole potenziate o le classi speciali, i Centri socio-educativi, i Centri diurni, i Centri per le autonomie, i Centri residenziali. Tali spazi sono pensati e costruiti sulla gravità o sull’assenza di quelle condizioni che fondano la socialità, la comunicazione, la capacità lavorativa, la capacità di apprendere, per cui la loro esistenza è vista in rapporto all’incapacità o alla difficoltà della persona disabile a partecipare e vivere gli spazi che la società mette a disposizione delle persone che vivono in essa.

Il presupposto dei luoghi per le persone con disabilità risiede nel fatto che non possono essere utilizzati, frequentati o fruiti da altre persone, rendendo lo spazio emarginato dal sociale: inoltre, i luoghi dedicati alla disabilità, soprattutto adulta, non sono temporanei, ma irreversibili. La tendenza allo specialismo del luogo provoca così inserimenti delle persone con disabilità nei servizi tramite lo sradicamento, cioè l’abbandono del proprio paese o città. Come sottolineato, il luogo altro deve essere superato, pensando il servizio come territorio e come parte di esso, che dismette l’autoreferenzialità per essere sempre in relazione ai luoghi in cui le persone con disabilità vivono; pensare ad un servizio in quanto nodo che si orienta alle reti, anche naturali, e non artificiali o solamente burocratiche.

Ne consegue che una parte rilevante della mission è il passaggio dai servizi costruiti sulle categorie e su gruppi omogenei e statici (ad esempio, anziani o persone con disabilità) alle reti del territorio di appartenenza e al superamento delle dicotomie (es. disabilità e abilità oppure autismo e abilità) per un’apertura alle competenze e alle capacità di azione delle persone con disabilità. L’impostazione  qui proposta supera, così, il vincolo concettuale e semantico della dicotomia dentro/fuori dei servizi, pensandoli sempre in relazione ai luoghi da cui provengono e vivono le persone con disabilità. È in questa dimensione che si produce una modificazione della progettazione, assieme ad un riposizionamento del ruolo di educatore.

Progettare fra reti

Il progetto di vita è il tema che ricorre con maggior insistenza nella progettazione dei servizi per le persone con disabilità. Tale riferimento ha un valore sostanziale in quanto, proiettandosi in una dimensione evolutiva che ha in sé la prospettiva dell’adultità, richiede ai servizi un mutamento concettuale inerente all’idea di bisogno individuale e della sua fissità temporale.  Purtroppo alla base del progetto di vita se ne evidenziano vincoli e ostacoli che hanno origine nella settorializzazione, nell’istituzionalizzazione, nell’autoreferenzialità e nell’omogeneizzazione dei percorsi attraverso processi che tendono a raggruppare le persone in base allo stato di bisogno e non in virtù dell’essere persone con una propria identità. Tutto ciò diventa un fattore di rischio e di vulnerabilità sociale in quanto limita le opzioni e introduce le persone con disabilità in percorsi senza uscita: in questa prospettiva il progetto di vita assume un carattere burocratico che si riduce ad una semplice definizione di sequenze temporali standardizzate. Anche l’analisi del progetto educativo presente nel PEI evidenzia spesso un ripetere che ha come riferimento il deficit individuale: autonomia, bisogno, differenze, gravità, capacità attorno ai quali vengono costruiti i progetti in termini di normalizzazione con l’esito di leggerli similari a distanza del tempo.

La progettazione non può, quindi, limitarsi alla singola persona con disabilità, ma richiede di allargarla alla ricerca delle condizioni e delle possibilità che riguardano il contesto: in questa direzione ci si trova di fronte al concetto di ambiente di vita, attuale e possibile, che coinvolge i diversi tipi di esperienza che la persona ha o potrebbe avere con i gruppi sociali. Questi elementi diventano oggetto di una progettazione e di un’azione educativa che, in quest’ottica, hanno come riferimento: il microsistema che comprende la persona nelle sue interazioni quotidiane a casa, a scuola, in un servizio e nelle altre diverse situazioni; il mesosistema che implica l’insieme degli scambi che avvengono fra i vari microsistemi (ad esempio il rapporto fra scuola e famiglia, fra un centro diurno e la famiglia); l’esosistema che è costituito da quelle situazioni nelle quali si producono eventi che hanno riflessi sull’ambiente nel quale vive l’individuo e il macrosistema che comprende sistemi di credenze, stili di vita legati a sistemi che coinvolgono i livelli socio-economici, culturali, religiosi e politici (Bronfenbrenner,1979). Ritornano qui i riferimenti all’importanza della strutturazione ambientale per l’esercizio delle capacità e per il funzionamento delle persone: per garantire ad una persona una certa capacità, nel nostro caso l’accesso della persona disabile al tempo libero, non è sufficiente produrre stati interni di disponibilità, quanto invece organizzare l’ambiente, sia istituzionale che specifico, in modo da permettere alle persone di avere un ruolo. In questa prospettiva e in questo legame i progetti si ampliano fino a considerarsi inseriti in una fitta trama di relazioni che coinvolge non solo l’interazione con le persone ritenute in una situazione di bisogno, ma soprattutto negli scambi e nei confronti con i contesti e le situazioni sociali.

Queste sottolineature hanno una ricaduta importante anche sull’intervento educativo in quanto il concetto di progetto di vita richiede di vederlo collegato sia alla specificità delle fasi e alla loro relazione, sia alla significatività della transizioni. Questo significa che l’intervento educativo in una certa fase della vita di una persona disabile, ad esempio adolescenza o maturità, richiede certamente un’attenzione alla specificità di quella fase, ma anche una relazione con le fasi precedenti e una proiezione al futuro, alle fasi successive. Ma non solo: vanno infatti indagate e sostenute anche quelle transizioni definite normativamente che hanno un alto grado di significatività come, ad esempio, l’ingresso a scuola oppure al lavoro o in un servizio.

Come si può osservare, nella prospettiva appena citata, la relazione persona con disabilità-scuola-famiglia o persona con disabilità-servizi-famiglia o servizi-territorio, rappresenta una struttura di reti trasversali. Purtroppo l’impostazione dei servizi costruisce i suoi riferimenti soprattutto a livello istituzionale (comuni, medici, province, altri servizi, luoghi specifici di attività) coi quali condividere procedure per la conoscenza dell’utente, l’accoglienza e le attività, interne ed esterne. La rete che si costituisce ha un carattere essenzialmente burocratico e tecnico, cioè finalizzato all’organizzazione, soprattutto per le figure di riferimento come, ad esempio, l’assistente sociale. Sicuramente questo è necessario, ma l’impostazione si mantiene distante dal sociale e non affonda le sue radici nei sistemi di vita quotidiani capaci di produrre esperienze sociali di vita: una rete burocratica e tecnica permette indubbiamente un’esperienza (es. andare al mercato), ma è semplicemente una presenza e non una partecipazione nel sociale. Per concretizzarla, necessita di contesti e persone che, assieme, costruiscono e condividono relazioni, esperienze e attività che fanno emergere abilità, idee e scelte, permettendo al servizio di uscire dall’autoreferenzialità per assumere invece la dimensione di un nodo della rete. Ciò presuppone, però, una rete in grado di agire anche nei luoghi di appartenenza delle persone con disabilità e un alto grado di flessibilità per poter interagire con le variabili dei diversi contesti del sociale e con il potenziale di cambiamento delle reti di relazione. Difatti, l’immersione nei luoghi e nelle loro reti richiede di ripensare la strutturazione delle proposte, degli spazi e dei tempi in cui si attivano le azioni inclusive.

L’educatore

La prospettiva di un servizio come nodo di una rete proiettata nel sociale richiede di delineare alcune tracce di riflessione. Innanzitutto è da criticare la formazione dell’educatore, divisa fra area sanitaria e area sociale, implicando una differenziazione e categorizzazione in base al livello di gravità. Questa impostazione non sostiene certamente la prospettiva inclusiva, anzi conferma l’egemonia dei servizi e dispositivi basati sul biomedico individuale o, altrimenti detto, sul modello del deficit individuale come dato interno alla persona. Gravità e bisogno vengono così prodotti dalla norma: seguendo il pensiero di Canguilhem (1998), invece, la differenza fra normale e patologico diventa indeterminata e approssimativa, ma acquista una sua precisione nella vita di un individuo proprio per i significati che esso vi attribuisce. Ne consegue che la norma oggettiva viene messa in discussione per fare posto ad una molteplicità di norme che corrispondono alla specificità di ogni individuo: norme individualizzanti, quindi, ma che si articolano in una molteplicità di relazioni con quelle degli altri. L’educatore deve conoscere il linguaggio biomedico, ma non per utilizzarlo in termini egemoni, bensì per attivare un forte combinato fra attenzione alla persona e al sociale tramite una sua collocazione nel territorio e nelle sue relazioni anche nei casi di “gravità”. L’educatore non diventa, quindi, espressione compensativa di un problema, ma un investimento sociale attraverso il quale attribuire un significato sostanziale al progetto di vita. Ciò non significa negare competenze costruite, ma rileggerle e problematizzarle alla luce della prospettiva evolutiva e sociale.

Quest’ultima riflessione ci rimanda ad un secondo aspetto, cioè il controllo. Risulta chiaro che di fronte ad un alunno, un ragazzo, una persona adulta che non riesce a rapportarsi nel modo atteso con le figure educative e con il contesto, le difficoltà vengono spesso ricercate esclusivamente nell’alunno/ragazzo stesso, nei suoi atteggiamenti, nel suo modo di comportarsi, lasciando in ombra le relazioni che si stanno attivando ed il contesto. Paradossalmente consegue il rischio che gli educatori si pongano al di fuori come osservatori e agenti esterni, cristallizzando alcuni caratteri (“non rispetta le regole”, “è aggressivo”, “disturba”…): una oggettivazione, quindi, delle caratteristiche osservate come se ciò che si osserva fosse altro.

Tale contraddizione può essere spiegata con la difficoltà nell’analisi e nella lettura delle relazioni: ne consegue una loro resistenza a percepirsi come parte della relazione, del gruppo, delle loro dinamiche: in questa prospettiva l’educatore non si sente coinvolto in un processo, ma estraneo ad esso tanto da utilizzare strumenti e metodologie centrate sul controllo.  La conseguenza è che il principio di responsabilità  dell’educatore si limita al controllo e alla richiesta, ponendone il carico della gestione esclusivamente sull’alunno, sul ragazzo, sulla persona adulta. Da qui lo svuotamento della relazione, impedendo interazioni in grado di dar corso a processi co-costruttivi. Nella situazione ora delineata la comunicazione viene utilizzata prevalentemente per mantenere e conservare un rapporto funzionale all’azione di controllo: la comunicazione si riduce così ad uno strumento conservativo dove è evidente il carattere affermativo del ruolo di educatore.

Un terzo aspetto: il riferimento alla norma e l’applicazione passiva di un modello compensativo e/o educativo introducono la riflessione sulla cultura del prevedibile[1], cioè sul modo di pensare, di osservare, di decidere e di fare in base ad una definizione e categorizzazione: “è disabile, è straniero, è autistico…”. Attraverso la norma, un alunno e una persona vengono, così, definiti in anticipo, trascinando con sé tutte le caratteristiche delle categorizzazioni (deficit, disfunzioni, comportamenti, modalità…). Ne consegue che l’osservazione e l’esplorazione delle azioni attivate dall’alunno e dalla persona costringono l’educatore a ragionare sul versante del negativo, orientando le sue pratiche alla compensazione della difficoltà. Ciò significa che le potenzialità, le modalità personali e le strategie dell’alunno e della persona non sono il riferimento dell’educatore , ma lo sono invece la categoria del deficit e le possibili compensazioni in relazione al contenuto e alle prestazioni che vengono richieste. Ancora una volta ci si trova di fronte all’esterno, uno spazio simbolico entro il quale le azioni, le parole, i comportamenti sono già definiti e riprodotti come nel caso della personalizzazione e dell’individualizzazione esposte al carattere compensativo.

Didattica a distanza e la rete

La rete

Si è spesso sottolineato il carattere di “relazionalità” del contesto educativo: l’alunno, infatti, è coinvolto in una molteplicità di contatti e connessioni (cognitivi, pragmatici, socio-emotivi…) che caratterizzano e definiscono il suo ambiente di vita. L’intervento educativo non può limitarsi ad una relazione individuale, ma deve associarsi ad un intervento del gruppo. In questa prospettiva la progettazione può essere definita come lavoro di rete: in questa direzione l’intervento dell’educatore non può quindi rimanere isolato, ma deve proiettarsi in una rete progettuale e collaborativa. Non è sufficiente però definire l’insieme delle persone da coinvolgere o la funzione della rete: risulta necessario individuare il tipo di legame che li mette in relazione e questo significa proporre un’analisi basata sui concetti di distanza/vicinanza, debolezza/forza dei legami in questa direzione potrebbe essere utile riferirsi ad alcuni fattori, quali (L.Maguire, 1989):

  1. 1. la frequenza dei contatti: indica la quantità delle relazioni che intercorrono tra il soggetto ed altre persone;
  2. 2. la direzione: evidenzia le caratteristiche della relazione (ricettività, reciprocità);
  3. 3. la durata: indica da quanto tempo si è strutturata la relazione;
  4. 4. la forza: rappresenta il grado di coesione e di coinvolgimento emotivo tra il soggetto e la persona della rete.

Da questa prospettiva il sistema relazionale può proiettare e mantenere i contatti anche nella distanza: ne è esempio l’utilizzo dei dispositivi didattici come il video che può collegare la presenza, il sentire, il contatto visivo e la collaborazione. Naturalmente l’educatore è un mediatore fra l’alunno che segue e l’insegnante e i compagni della classe: ciò non è sufficiente in quanto occorre un contenuto di apprendimento uguale per tutti e un clima cooperativo. Similarmente, l’educatore può attivare l’apprendimento collegandosi con uno o più compagni.          

Il rischio della semplificazione

Le analisi e le riflessioni nell’ambito dell’apprendimento evidenziano tendenze diverse: da una parte si assiste ad un eccesso di semplificazione (soprattutto nella direzione degli alunni con disabilità), un consumo didattico di superficie, e dall’altro l’accentuazione del concetto di complessità. In genere, le prime due tendenze vengono utilizzate per alunni con difficoltà col rischio della semplice memorizzazione, della riduzione dei contenuti e del limitare gli aspetti teorici alla sola valenza operativa. Superare il rischio delle semplificazioni significa collocare il contenuto all’interno di un’azione pluralizzata (che utilizza diversi approcci e diverse modalità ), interattiva (che tiene conto dell’altro e del contesto ), aperta (all’incerto e all’errore).

[1] La cultura del prevedibile viene utilizzata da P.Macherey (2017) per descrivere la società che funziona con le norme. Nel contesto di questo contributo viene adattata al contesto scolastico.