Le pratiche immunizzanti della scuola che generano e favoriscono lo speciale e l’escludibile
Intervista scritta:Pubblicata in Appunti sulle politiche sociali, m. 1/2019
www.grusol.it
Roberto Medeghini
Pedagogista e Ricercatore, Gruppo GRIDS (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies), Laboratorio di Ricerca Inclusione Scolastica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma 3
robmedeghini@gmail.com
DOMANDA 1
Nel numero 4/2018 della rivista Appunti sulle politiche sociali, abbiamo dedicato un dossier al tema dell’inclusione scolastica: una riflessione a più voci, in cui emergono le criticità attuali del sistema scolastico e dell’impianto organizzativo della scuola inclusiva, accanto alle necessarie condizioni per attuarla e che rendono ricca la scuola inclusiva, di ordine pedagogico-didattico, di natura etica e politica, di uguaglianza all’eccesso dei diritti, di natura educativa e di qualità della vita delle persone con disabilità. La vicenda “scoppiata” a Falconara Marittima (AN) lo scorso mese di settembre, a seguito delle proteste delle famiglie per la riduzione di organico della scuola speciale presente presso il Centro di riabilitazione “Bignamini” della Fondazione don Gnocchi, che ha visto poi l’istituzione di un Gruppo di lavoro tra i soggetti e che si è conclusa poi con il rinnovo di una convenzione tra l’USR, il Centro di Riabilitazione Bignamini, continua a porci molte riflessioni.
Anzitutto, Medeghini, chiediamo a lei come mai, come sia possibile, oggi a più di 40 anni dalla legge sull’integrazione[1] scolastica italiana, cercare ancora tesi a sostegno del diritto all’istruzione per tutti nella scuola comune, anche di chi è in condizione di disabilità “gravissima”. Non sembra un paradosso storico, continuare a mantenere le “scuole con particolare finalità” giustificate da convenzioni tra i soggetti (USR, Centri di Riabilitazione)? Sappiamo infatti, che a livello normativo “non esistono scuole speciali, non sarebbero previste, ma che si mantengono come strumento di garanzia del diritto allo studio per quei minori con disabilità che debbano frequentare centri di riabilitazione diurni o residenziali e che sarebbero quindi impossibilitati a frequentare le scuole comuni del territorio”. (Merlo, 2015) Un paradosso, se solo pensiamo alla Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità?
Non è un paradosso perché le culture (politica, sociale e scolastica) sono prevalentemente orientate all’immunizzazione e, in parte, al rifiuto delle differenze[2]. Basti pensare alle scuole non integrative giustificate come risposta razionale alla gravità; alle classi con solo alunni migranti a causa di un abbandono da parte delle famiglie italiane; alla selezione dei Licei Classici riportati dai giornali nel febbraio 2018: Visconti, Roma (“… gli studenti sono italiani e nessuno è diversamente abile. Tutto ciò favorisce l’apprendimento”.), D’Oria, Genova (“L’assenza di gruppi particolari, ad esempio nomadi o provenienti da zone svantaggiate, dà un background favorevole”.), Parini, Milano (“Gli studenti del classico, per tradizione, hanno provenienza sociale più elevata. Ciò nella nostra scuola è molto sentito”.); all’aumento dei casi di razzismo presenti nel sociale e nelle scuole; all’abbandono scolastico. I contenuti di questi esempi sono sempre stati presenti nella nostra cultura: a volte sopiti e altre volte eclatanti come nell’oggi, ma sempre operanti nelle culture. Certo, in diverse situazioni sono stati evidenziati, criticati, disapprovati, categorizzati per poi spegnersi con l’unica interpretazione del conflitto fra integrazione e resistenze. Certamente è utile, è concreta, ma è parziale in quanto, implicitamente, sceglie l’attribuzione all’esterno (resistenze o rifiuto) senza interrogarsi dei limiti e difficoltà insiti nell’integrazione sia nella prospettiva che nel percorso. L’interrogativo da porsi è perché le spinte per un cambiamento culturale e dell’istituzione scolastica siano state normalizzate dalle leggi ed è da qui che dobbiamo partire.
Ad eccezione di alcune voci[3], le spinte (anni sessanta/settanta) innescarono un approccio critico verso le classi differenziali al fine di un loro superamento, lasciando, in ombra, il problema delle classi speciali e dell’istituzionalizzazione. Non era un caso che diverse riviste scolastiche degli anni citati proponessero l’abolizione delle classi differenziali e, contemporaneamente, mettessero in guardia dal superamento delle scuole speciali, avanzando proposte per una loro riorganizzazione e non il loro superamento.
Il taglio del dibattito pedagogico e delle scelte politiche evidenziava, così, una frattura culturale fra il concetto di svantaggio, interpretato in termini di esito sociale, e quello di disabilità che veniva assimilato al non funzionamento per condizioni deficitarie interne alla persona. Il tema del sociale e il problema scolastico si ridussero alla fascia di alunni recuperabili, mentre le disabilità vennero occultate e relegate nei fuori norma tanto da delegarne la definizione e la gestione alla cultura biomedico-individuale e specialistica. Tale dicotomia, tuttora presente, spiega i diversi percorsi, temporali e qualitativi: superamento delle classi differenziali (urgenti anche per la produzione) e delle scuole speciali (protratte nel tempo per l’inabilità). In questa prospettiva, il contenuto della legge 517/1977 ha virato sul versante bio-medico e specialistico nonostante la proposta di legge presentata nel 1975 che tendeva a superare la delega allo specialismo (insegnanti specializzati, operatori sociali e sanitari). L’effetto culturale della norma, dei deficit e dei livelli di gravità ha avuto ricadute negative per diversi anni, coinvolgendo anche l’inserimento di studenti con disabilità nella scuola secondaria di secondo grado che, però verrà superato dalla Corte Costituzionale (1987) per compensare la latitanza della politica. La legge 104/1992, definita Legge Quadro sull’handicap, arrivava a distanza di quindici anni dalla legge 517 e, pur rappresentando un avanzamento significativo, rimaneva e rimane ancorata alle radici della 517, confermando l’idea deficitaria della disabilità.
Il deficit, l’abilismo come criterio del funzionamento, l’orientamento bio-medico, la specializzazione dell’insegnante per il sostegno e la certificazione dell’equipe medico sanitaria rappresentavano e rappresentano ancora i dispositivi dell’integrazione.
Il paradigma della norma diventa quindi dominante in virtù di un processo incrociato di politicizzazione della medicina e di medicalizzazione della politica (Esposito, 2004, 2017) che coinvolge l’ambito scolastico.
Questa prospettiva ha rafforzato e stabilizzato le pratiche immunizzanti della scuola, tendenti a salvaguardare l’istituzione con diverse forme conservative: la progressività, cioè il legame fra ingresso e acquisizione di abilità sempre meno distanti dalla norma (es. fermare alunni con disabilità nelle scuole primarie per più anni, impedendo l’accesso alla scuola secondaria di primo grado); la differenziazione, cioè nella relazione fra accesso alla scuola e livello di gravità che pone non solo una divisione fra chi può e non può accedere ma dà anche l’indicazione di percorsi differenziati fra chi non è in grado e chi può affrontare il processo di integrazione (si leggano gli interventi dei Licei Classici Visconti, Roma; Parini, Milano; D’Oria, Genova, riportati dai giornali nel febbraio 2018); le condizioni, cioè la richiesta di risorse umane o finanziarie destinate alla persona in ingresso e non al cambiamento della scuola.
In queste immunizzazioni la prospettiva dello speciale è sempre stata presente e lo è ancora sia all’interno con forme di esclusione (es. attività in gruppi omogenei di alunni con disabilità o individualmente all’esterno della classe) che all’esterno con centri e strutture dedicate; non era e non è nascosta perché è l’esito di un processo politico, sociale e culturale condiviso da molti, fra i quali parte dei dirigenti e docenti.
E non è un caso che la Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità sia inerme per le numerose resistenze qui evidenziate, per la sua caratterizzazione individualista senza mettere in discussione i contesti del sociale e la separazione di categorie.
DOMANDA 2
Due aspetti poi ci sembrano importanti da chiederle: uno di natura linguistica e simbolica, un altro di natura pedagogica. Se le parole sono importanti perché esprimono una rappresentazione sociale di quanto si dice, leggere quanto riporta il sito del Centro di Riabilitazione[4] appare quanto mai contrastante con la cultura a cui – in questi anni in Italia (ma non solo) – siamo giunti sulla disabilità. Parole come “semidegenza scolare”, “scuola speciale”, “regime seminternato”, appaiono così forti perché legati a una cultura istituzionalizzante. Come possono questi termini significare inclusione? Quali “impliciti pedagogici” (come li definisce lei in Animazione sociale n. 1°/2009) nasconde questo tipo di scuola?
Il lessico citato nella domanda è certamente esito dell’istituzionalizzazione e, quindi, non può essere definito come inclusivo. Basta rivolgersi ai discorsi relativi alla disabilità che si differenziano per gravità del deficit corrispondente ad un luogo specifico o, meglio, speciale.
Foucault (1994) sottolinea che il linguaggio è questione di spazi delineati e definiti dalla società fra i quali i luoghi altri(eterotopi). Essi sono reali, localizzabili e diversi da tutti gli altri per la loro funzione: luoghi per la devianza in cui vengono collocate le persone definite lontane dalla norma; spazi specifici (ad esempio per la disabilità) e un sistema di apertura e di chiusura per il loro accesso negli spazi (diagnosi e tipologie di disabilità). Ciò che risulta importante non è solo il concetto di eterotopia, ma il fatto che in essa si producono un linguaggio e discorsi caratterizzanti e specifici: lo spazio parla, comunica e relaziona, costituendosi così come un sistema culturale in cui la denominazione del luogo con scritte o icone identifica e proietta rappresentazioni. Il luogo, col linguaggio che lo definisce, dice della disabilità, parla per essa, la definisce, intrappolandola così in un discorso che le impedisce di uscire dai vincoli che il luogo le ha posto.
La costruzione culturale dello spazio e il suo linguaggio va messa in relazione agli ambiti scientifici, al sistema delle informazioni e alle istituzioni che rivestono il ruolo di produttori e controllori del vero. In tal senso l’oggetto del discorso si costruisce all’interno di relazioni tra saperi discorsivi e istituzioni, norme, metodologie, tecniche: su questo terreno si costituiscono dei dispositivi di sapere che coniugano serie di pratiche e un sistema di verità che ha nella norma il riferimento principale. In queste dimensioni diventa possibile produrre enunciati formulabili (ad esempio i discorsi sulle disabilità) attorno a processi di soggettivazione (persone con disabilità, insegnanti di sostegno, assistenti, educatori) e di oggettivazione (le scritture della disabilità come ad esempio la diagnosi, la classificazione e la gerarchizzazione delle figure educative). Si definisce in questo modo la caratteristica di una società disciplinare, funzionante secondo saperi forti e norme dalle quali si producono discorsi, lessico, forme e pratiche istituzionalizzanti in un processo bio-medico individuale.
È evidente che se tale processo viene assunto dai dirigenti e dai docenti, la cultura della scuola non solo viene organizzata e gestita in base ad impliciti pedagogici che possono contribuire all’esclusione e/o alla marginalizzazione di gruppi di studenti, ma si orientata anche alla formazione di scuole e classi non integrative. Ma quali sono gli impliciti pedagogici?
- la concezione abilista la cui radice teorica è in relazione al sapere bio-medico individuale e alle conseguenti pratiche (discorsive e non) che considerano il deficit come dato interno alla persona e come fattore causale delle difficoltà. Ne deriva che la cultura scolastica ed educativa tende a valutare e definire la posizione di una persona in base alla partizione fra abilità/non abilità, definendo così le possibilità/non possibilità di apprendimento e/o di relazione e/o sociali;
- la neutralità dei contesti, dove le forme organizzative, i processi di insegnamento-apprendimento, le relazioni educative e sociali sono considerate come elementi «neutri», estranei al cambiamento;
- la neutralità degli attori che vi operano (dirigenti, docenti…) i quali faticano non solo ad assumere la responsabilità degli esiti, ma tendono a delegare allo specialismo la gestione dei percorsi ritenuti difficili. Da qui la scelta di scuole non integrative ;
- le differenze come esito del deficit individuale;
- l’adattamento e la normalizzazione sono indicativi di una resistenza culturale della società e delle istituzioni formative verso le differenze alle quali si risponde con il principio dell’ «uguaglianza delle opportunità» che risulta contraddittorio in quanto utilizza un criterio di omogeneità per dare una risposta alle presenze plurali.
DOMANDA 3
Proviamo a riflettere ora mettendoci dalla parte delle famiglie, di chi sceglie oggi la scuola speciale piuttosto che la scuola comune. E’un tema delicatissimo questo, quello che ci preme è capire con lucidità quello che accade. Perché ci si trova a poter scegliere ancora una scuola dentro a Centro Riabilitativo? Verrebbe da pensare che il Centro di riabilitazione che mi offre anche istruzione internamente sia rassicurante, in un tempo di fatica e di incertezza come quello di una famiglia con un figlio in fase evolutiva con disabilità complessa. Una soluzione che semplifica quel faticoso e a volte anche inadeguato e complesso sistema di rete territoriale (diritto all’istruzione, il diritto alla fisioterapia, il diritto all’assistenza domiciliare, al trasporto) E poi c’è il grande tema della presa in carico. Oggi le nostre Unità Multidisciplinari territoriali sono sottodimensionate, strutturalmente inadeguate a coprire i bisogni, a fare verifiche, e il lavoro di rete dei soggetti (educatore, scuola, famiglia ecc…) è sempre complicato, spesso nei casi di disabilità complessa anche per mancanza di competenze professionali. Forse, la scuola dentro al centro di riabilitazione, può apparentemente semplificare questo lavoro di rete? Una rete che però rischia un’asfissia se non si alimenta del fuori, gettando le basi per un percorso verso l’istituzionalizzazione della persona disabile adulta?
Provo ad affrontare alcuni temi:
Risorse
In precedenza ho sottolineato la prevalenza di meccanismi conservativi, ma soprattutto immunizzanti, da parte delle culture (politica, sociale e scolastica) tanto che le risorse vengono invocate come condizioni di tutela dell’organizzazione e non come possibilità e mezzi per il cambiamento e l’innovazione in grado di aprirsi alle differenze.
Si spiegano così i diversi fallimenti dell’integrazione pur in presenza di risorse adeguate: ne sono un esempio gli studenti con disabilità che trovano poche opportunità di partecipazione all’apprendimento in classe nonostante una copertura adeguata di ore; i progetti sociali per le persone con disabilità che rimangono confinate ad un primo livello di inserimento. L’elenco potrebbe continuare, ma la sottolineatura riguarda la condizione che potremmo definire «handicap da conversione[5]», cioè un’impossibilità a tradurre in positivo le risorse che vengono messe a disposizione (ad esempio le ore dell’insegnante di sostegno e dell’assistente educatore). L’inadeguatezza produce, quindi, un «doppio handicap» in quanto svantaggia doppiamente la persona: il primo deriva dalla relazione fra deficit e struttura del contesto e il secondo dall’incapacità del contesto di tradurre le risorse in cambiamenti, ad esempio, la vita di classe per l’alunno con disabilità. Da qui le cause: la centralità del deficit e della relazione fra deficit-bisogno-risorse esposte al singolo, eludendo i fattori contestuali che rappresentano davvero le cause dell’esclusione.
La famiglia e la rete
Le attuali politiche e, in genere, il linguaggio educativo e scolastico sottolineano spesso la centralità della famiglia e dell’impatto problematico della disabilità per il quale si orientano ad un’epistemologia individualista senza leggerne e interpretarne i problemi alla luce dei sistemi relazionali dei contesti sociali ed istituzionali. In questa prospettiva la famiglia viene esposta ad una condizione di solitudine e alla percezione di abbandono e, allo stesso tempo, la visione della disabilità come problema individuale costringe la persona con disabilità ad avere l’unico riferimento nella famiglia o nei servizi: l’esito è un possibile isolamento che coinvolge genitori e figlio con disabilità, esponendoli così ai rischi dell’esclusione.
La condizione di solitudine rispetto al sociale, la percezione dell’abbandono, le reti che si riducono ai servizi, la centralità dell’istituzione scolastica e la sua difficoltà nella gestione degli alunni con disabilità più o meno complessi, l’assenza di reti sociali costringono le famiglie alla ricerca di una tutela attraverso strutture dedicate. Questo elenco, non esaustivo, ci permette di comprendere le cause della sopravvivenza delle strutture non integrative e non inclusive: l’egemonia bio-medico individuale nelle reti di servizio, l’assenza delle reti sociali, l’evidente autoreferenzialità della scuola e la sua difficoltà nella gestione degli alunni con disabilità.
Come uscirne? Orientarsi verso l’approccio inclusivo dove il riferimento alla famiglia viene rivisto e riproposto come uno dei nodi della rete sociale. Infatti, pur riconoscendo alla famiglia un ruolo importante, la prospettiva inclusiva non isola questo microsistema dagli altri, ma lo pensa nelle diverse relazioni a tal punto da proporre un potenziamento di queste ultime. L’inclusione si orienta ad un sistema qualitativo di rete che non isola i singoli nodi del sociale, ma investe sulla costruzione, mantenimento e potenziamento delle loro relazioni, azioni e interazioni in quanto generatrici di possibilità. In questa prospettiva si delinea un’idea di servizio come territorio passando da un concetto di rete burocratica e tecnica ad una rete ricca di contesti e persone che, assieme, permettono al servizio di uscire dall’autoreferenzialità per assumere invece la dimensione di nodo della rete. Allo stesso modo, si chiede alla scuola di non scorporare la sua esperienza dall’insieme dei legami sociali che la coinvolgono. Trattare la scuola come entità separata dal più vasto concetto di relazione sociale equivale a definire un principio di autoreferenzialità che impedisce di connetterla con altre questioni legate alla esclusione. Ciò significa che non vi può essere un progetto adeguato di costruzione di legami sociali interni alla scuola senza che questo si misuri e coinvolga il territorio.
In questa direzione risulta importante ancorare gli obiettivi e gli interventi alle relazioni esistenti fra persona, contesti e corso di vita: mete, obiettivi ed interventi assumono in tal modo un carattere di flessibilità e di modificabilità proprio per la stessa natura dinamica ed evolutiva del farsi delle relazioni. Questo sfondo concettuale e metodologico diventa decisivo in quanto permette di pensare alla scuola e all’azione didattica come a uno dei contesti dell’inclusione e di vederlo in continua interazione con altri (famiglia, territorio). Non è più sufficiente infatti pensare ad un obiettivo (ad esempio l’apprendimento di un contenuto o di una procedura) nella sua sola visione strumentale senza che si sia definita una sua validità, appunto, ecologica (quale vantaggio procura, come può essere speso nell’ambiente, quale apporto dà all’autonomia) oppure sostenere le relazioni sociali nella scuola senza collegarle e proiettarle progettualmente verso il sociale. L’inclusione richiede quindi di ricomporre in un quadro unitario tutti gli ambiti che, con maggior o minor responsabilità, e interrelazione, intervengono nel processo biografico formativo: la famiglia, la scuola, i servizi, le associazioni, ma anche le reti informali della società come i gruppi, i compagni di classe, il vicinato, i conoscenti che a vario titolo interagiscono con la persona disabile. Questa rete di interdipendenze è essenziale in quanto il concetto di inclusione richiede di pensare non solo a luoghi istituzionali aperti, ma anche agli altri luoghi dell’inclusione, quelli meno formali a volte inattesi, ma potenzialmente forti e significativi, che consentono di concretizzare un progetto integrato ed evolutivo.
DOMANDA 4
- La disabilità grave e gravissima, sembra proprio questo il punto tale da giustificare la possibilità di una istruzione separata dai contesti di tutti che va assolutamente contrastata sul piano anzitutto pedagogico, cioè, che la gravità sarebbe la condizione per accedere alla scuola separata. Anzitutto, come si misura il livello di gravità, sulla base del funzionamento fisico della persona? Quando si diventa così gravi tali da giustificare il fatto che si ha bisogno di una scuola speciale? In che modo oggi possiamo dire che anche un disabile grave è educabile? Ha ancora senso, sul piano pedagogico, parlare di educazione per criteri di omogeneità di disabilità?
Il concetto di gravità e i suoi livelli vengono definiti tramite una valutazione del funzionamento cognitivo, produttivo e autonomo dai quali si producono gli stati di dipendenza, le risposte di cura e di sostegno. È evidente l’influenza e l’egemonia del paradigma abilista-individuale che fissa la condizione delle persone tramite il vincolo della diagnosi, delle decisioni e del welfar sulla base della normalità: avanza così una disabilità fissata in una categoria che viene prodotta e oggettivata, che delimita l’estensione dei bisogni e che proietta il percorso di vita in spazi dedicati dai quali non può svincolarsi. L’oggettivazione e bisogni sono, perciò, correlati e definiti, vincolati anche alla produzione, costruzione e separazione tra luoghi normali e speciali in virtù di un processo incrociato di politicizzazione della medicina e di medicalizzazione della politica[6] che coinvolge anche l’ambito scolastico.
Gravità e bisogno vengono così prodotti dalla norma, dall’oggettivazione e dalle categorizzazioni ed è evidente che il superamento dei significati sopra evidenziati permette nuove prospettive.
Nell’ambito della “gravità” e seguendo il percorso di Canguilhem (1998) la differenza fra normale e patologico diventa indeterminata e approssimativa se applicata ad un insieme di individui differenziati, ma acquista una sua precisione nella vita di un individuo proprio per i significati che esso vi attribuisce. In questa prospettiva una perdita o un’assenza non sono sufficienti a provocare un disturbo: infatti questo viene messo in evidenza nel momento in cui si coinvolge una persona in qualcosa che ignora, ma se la stessa persona è sollecitata, magari nella stessa funzione come ad esempio il linguaggio, ad esprimersi in ciò che è in grado di fare, la prospettiva cambia. Ne consegue che la norma oggettiva viene messa in discussione per fare posto ad una molteplicità di norme che corrispondono alla specificità di ogni individuo: norme individualizzanti, quindi, ma che si articolano in una molteplicità di relazioni con quelle degli altri.
E il bisogno? Seguendo, invece, la prospettiva dei bisogni radicali di Heller (1973), i bisogni sono orientati ai valori e alla comunità. Il pensiero di Heller, infatti, si concentra sulla condizione umana (l’amicizia, l’amore, le relazioni autentiche, il lavoro soddisfacente e riconosciuto, giustizia, la realizzazione di sé) e sul fine di una società giusta. Il problema è quello di costruire una nuova visione valoriale, in grado di superare la deriva della dittatura del bisogno come bisogno oggettivato. Sembra chiaro che in quest’ultimo approccio, la prospettiva non è tanto quella di dare solo risposte ai bisogni, ma di costruirne altri e diversi dove l’uomo sia al centro delle dinamiche sociali che lo coinvolgono e che rendono questa costruzione continuamente in evoluzione.
É qui che emerge il tema di una comunità nella quale l’Altro rimanda contemporaneamente a se stessi e agli altri e dove il loro incontro diventa sempre problematico: nella dimensione individuale, dove è sempre in atto il conflitto fra bisogni alienati e radicali e, in quella sociale, esposta continuamente al controllo dell’Altro: in questo modo, Heller sposta l’argomentazione dal singolo bisogno e dalle risposte conseguenti a quello di comunità.
E l’educabilità? Per ricondurre la persona alla normalizzazione oppure per ridare voce alla persona nelle relazioni e nel percorso di vita? Per utilizzare l’interpretazione medico-individuale e la specializzazione del linguaggio tecnico e normativo oppure per spogliarsi dal pensiero normativo e per ricercare, comprendere, sintonizzarsi ed interagire con la norma della persona con disabilità che insegnanti ed operatori hanno di fronte?
In questa prospettiva non abbiamo bisogno di scuole speciali, ma l’operazione dell’includere tutti, può assumere diverse prospettive. L’inclusione responsabile (Bowe, 2005), che è presente anche in Italia, afferma la necessità di opzioni specifiche (es. scuole speciali) per la difficoltà dell’istituzione scolastica ad offrire un’istruzione adeguata ad alunni e studenti con gravi disturbi o con disabilità complesse. Questa posizione è conforme alla Dichiarazione di Salamanca in cui si propone l’inserimento di tutti gli alunni nella classe ordinaria a meno che non si oppongano motivazioni di forza maggiore (Unesco, 1994). In questo sfondo si genera l’escludibile non solo nella generalità degli alunni e studenti, ma all’interno delle stesse categorie che sono oggetto dell’inclusione, evidenziando, così, una forte contraddizione con i principi generali dell’inclusione sopra esposti.
La piena inclusione comprende, invece, tutte le condizioni delle differenze indipendentemente dalla gravità, trascende la normalità e le etichettature, supera la denominazione dell’altro perché sottolinea la partecipazione anziché i criteri normativi; inoltre richiede un coinvolgimento attivo culturale e non l’acquisizione e l’applicazione passive di un modello. In questa prospettiva supera la standardizzazione dello spazio, dell’organizzazione, della didattica e dei suoi contenuti in una prospettiva per tutti. Inoltre riesce ad uscire dall’autoreferenzialità per organizzarsi come un nodo della rete sociale e dei servizi in grado di partecipare al progetto di vita dei propri alunni e studenti.
Ciò implica necessariamente un cambiamento e riposizionamento culturale che non si limiti all’area dell’educazione, ma che coinvolga anche la politica nel superare l’impronta medicalizzante costruita sulla teoria bio-medica del deficit individuale; nel non limitarsi al concetto di tutela, ma nell’orientarsi ai sistemi di contesto e ai loro effetti di esclusione e marginalizzazione sociale; nell’abbandonare l’approccio legislativo integrativo legato ai livelli di abilità e di gravità, aprendo, così, una scuola e un insegnamento aperto alle differenze senza limitazioni nell’utilizzo di mediatori e di strumenti per tutti gli alunni e studenti.
Conseguentemente vengono sollecitati anche i saperi forti a collocare il sapere all’interno dei contesti e delle relazioni per evitare una conoscenza autoreferenziale ed isolata; a caratterizzare le osservazioni nella prospettiva delle potenzialità; a superare gli elementi definitori categorizzanti e il carattere burocratico, configurando così un linguaggio orientativo in grado di confrontarsi e di interagire con i linguaggi dell’apprendere e dell’insegnare. In quest’ultima sottolineatura si configura ciò che Morin (1994) definisce democratizzazione della conoscenza ovvero, democrazia cognitiva, dove il sapere viene diffuso, confrontato e condiviso. Questa prospettiva permetterà di uscire dalla produzione normativa delle differenze, dalla posizione di potere e dagli atti d’autorità fondati su un sapere categorizzante e normalizzante.
DOMANDA 5
Il clima culturale in cui oggi ci troviamo, quanto incide nei processi sociali? L’integrazione scolastica è stata possibile non per delle leggi calate dall’alto, ma per una diffusa partecipazione di molti a partire dalle famiglie, dalle associazioni, dagli operatori dei servizi… quel clima culturale ha portato poi grandi cambiamenti in Italia negli anni 70… Secondo lei, qual è il ruolo e il compito della scuola oggi?
Siamo in presenza di una cultura neoliberista dominante e trasversale che fa oscillare il pendolo verso l’espulsione dell’altro; verso un accentuato individualismo; verso l’abilismo e la neutralità dei contesti; verso il biologico presente nella prospettiva bio-medico individuale; verso la categorizzazione, il riduzionismo e la semplificazione delle idee e del linguaggio in contrasto con la complessità; verso l’affermazione della delega alle figure specializzate (medici, insegnanti specializzati per il sostegno, formatori) come elementi sostitutivi richiesti dal sociale e dalle politiche burocratiche e di controllo che si ritirano dalla responsabilità verso un reale progetto di vita per le persone. È evidente che il tema della delega e delle sue rappresentazioni rimandano sempre a persone sradicate dai sistemi sociali in cui vivono. Non è il frutto solo dell’oggi, ma l’esito anche del “prima” come ho sottolineato nella prima domanda, riferendomi ai processi di immunizzazione. Ma ciò che risulta critica è l’operazione esterna delle istituzioni e del sociale tendente ad includere per normalizzare attraverso l’omogeneità formativa e di insegnamento, ispirandosi alla teoria liberale dell’uguaglianza delle opportunità; un principio, questo, che risulta contraddittorio in quanto utilizza un criterio di omogeneità per dare una risposta alla presenza plurale delle differenze.
L’ambiguità dell’inclusione normalizzata richiede, quindi, un suo riposizionamento: la questione dell’oggi è che cosa facciamo per mettere in crisi e superare la cultura e le pratiche costruite sulla norma da cui si genera la categorizzazione e la dissimulazione dell’esclusione (Slee e Allan, 2001). Riposizionare l’inclusione significa distaccarsi dall’ambiguità delle definizioni e dei suoi significati per orientarsi a scelte e prassi culturali, politiche, educative e didattiche in grado di affermarla.
Ma quali?
La via d’uscita si trova nella sospensione dei presupposti che caratterizzano l’altro e ciò non significa che non si possano utilizzare studi, ricerche e osservazioni dei processi di apprendimento: la scuola, infatti, ne ha bisogno per superare il carattere di “contenimento” delle difficoltà e per assumere consapevolezza, competenze e responsabilità. Il problema si presenta quando la scuola delega al paradigma bio-medico individuale e agli specialisti; quando sovrappone la categorizzazione agli alunni e studenti; quando richiede la certificazione per utilizzare i supporti all’apprendimento; quando abbandona il linguaggio pedagogico per assumere quello specialistico; quando è orientata all’applicazione di metodologie senza un pensiero che lo giustifichi; quando segue la cultura del prevedibile; quando utilizza i voti come potere e di controllo.
L’allontanamento da queste modalità e pratiche permette alla scuola di recuperare il significato originario dell’educazione e dell’apprendimento, di uscire dalla produzione normativa delle differenze e da una posizione di potere basata sui parametri di normalità e di valutazione. Accettare di mettersi in gioco di fronte alla sfida della complessità presente nell’attuale processo formativo e di insegnamento rivolto a tutte le differenze. Questo cambiamento di paradigma, articolato su un versante pedagogico, è la reale tutela che possiamo offrire a tutti gli alunni e studenti.
BIBLIOGRAFIA
- 2016, Medeghini R., L’inclusione chiede un cambiamento di sistema. La prospettiva dei Disability Studies Italy.In Appunti sulle politiche sociali, Gruppo Solidarietà, Ancona, pp.1-8.
- 2018, Medeghini R., Uscire dall’inclusione? L’inclusione scolastica tra problematizzazione, ambiguità e normalizzazione. In Disability Studies e inclusione. Per una lettura critica delle politiche e pratiche educative, Trento:EricKson, pp.205-23
[1]Il significato di inclusione e di integrazione non si sovrappongono. Se l’integrazione assume il paradigma biomedico individuale, i Disability Studies Italy (DSI) decostruiscono la concezione di disabilità nel suo legame col deficit, con la norma standardizzata e, di conseguenza, con l’epistemologia medico-individuale che la determina. Non si limita alla disabilità, ma coinvolge soprattutto il significato delle differenze, spostando l’attenzione da un deficit caratterizzante la persona al possibile ruolo disabilitante del sociale, dei suoi contesti e delle relazioni che in essi si attivano: da qui l’analisi delle barriere per un progetto di vita proiettato verso l’emancipazione dal deficit e dall’esclusione. Inoltre mette in discussione diversi piani: il bisogno come mancanza; la cura come conseguenza del non funzionamento; i servizi (ad es. per la disabilità, gli anziani, …) come strutture delegate dalla politica e dal sociale ad occuparsi delle persone ritenute bisognose di cura; la scuola come contesto di categorizzazione e di selezione sulla base del funzionamento degli alunni e studenti (es. Bisogni Educativi Speciali).
[2]Differenza non come elemento deficitario, ma come modalità personale e originale di porsi nella vita
[3] Basaglia F., Zappella M.
[4] https://www.dongnocchi.it/@strutture/centro-bignamini-don-gnocchi/servizi/ciclo-diurno-continuo-cdc-scuola-speciale-semidegenza%20
[5] Tale definizione è presa in prestito da A.Sen (Inserto domenicale Sole 24 Ore – 4 settembre 2005 – p.36) il quale, riferendosi al concetto di povertà, mette in relazione le risorse con la possibilità di convertirle in forme di vita adeguate.
[6] (Esposito, 2004,2017)