Mike Oliver (1945-2019)

Mike Oliver. Figlio della classe operaia, da adolescente, per un tuffo in piscina mal riuscito finì paraplegico. In gioventù si distinse negli sport per disabili, quindi, laureato, venne coinvolto nell’esperienza didattica della Open University. Il suo lavoro teorico si inscrive nell’orizzonte del materialismo storico inglese, legato alla riscoperta del lavoro di Gramsci con la pubblicazione della traduzione dei Quaderni dal carcere e all’attenzione ai temi althusseriani di Ideologie e apparati ideologici dello Stato.

In The politics of disablement(1990), in particolare, Oliver si è proposto di esporre il modello sociale della disabilità in termini sociologicamente adeguati. Per Oliver è urgente l’elaborazione di una teoria sociale della disabilità come «teoria dell’oppressione sociale».

Presentazione Social Model of Disability



Intervista a Mike Oliver

Oliver, Michael J. 1999. “Capitalism, disability and ideology: A materialist critique of the Normalization principle.” First published in Flynn, Robert J. and Raymond A. Lemay, A Quarter-Century of Normalization and Social Role Valorization: Evolution and Impact, 1999. Internet publication URL: http://www.independentliving.org/docs3/oliver99.pdf



Capitalismo, disabilità e ideologia: una critica materialista del principio di normalizzazione.

Mike Oliver, Professore in Disability Studies all’Università di Greenwich, Londra, England

Introduzione

È opportuno dire due cose per cominciare. Non coltivo un particolare interesse per la storia della normalizzazione e pertanto ciò che propongo non è una interpretazione della sua storia in prospettiva revisionista. Nemmeno penso che la normalizzazione (o valorizzazione sociale dei ruoli, secondo la sua ultima reincarnazione), abbia molto da offrire allo sviluppo di una teoria sociale della disabilità. Sono comunque interessato all’oppressione delle persone disabili nelle società capitaliste e a ciò che la normalizzazione a tal proposito ha da dire, o meglio, non dice.

 Questo interesse mi ha spinto a delineare ciò cui una teoria sociale della disabilità dovrebbe somigliare (Oliver 1990). A mio parere, tutte le teorie sociali devono essere giudicate sulla base di tre elementi interrelati: la loro adeguatezza a descrivere l’esperienza, la loro adeguatezza a spiegare l’esperienza e, infine, il loro potenziale nel trasformare l’esperienza. La mia teorizzazione sulla disabilità si colloca nell’ambito dell’economia politica Marxista che, come argomenterò, si dimostra una base per descrivere e spiegare l’esperienza ben più adeguata della teoria della normalizzazione, fondata sulla sociologia interazionista e funzionalista.

Mi spingerò in effetti oltre, fino ad affermare che la teoria sociale che sostiene l’economia politica marxista ha un potenziale trasformativo nell’eradicare l’oppressione che le persone disabili affrontano nel mondo decisamente maggiore di quanto ne abbiano le teorie interazioniste e funzionaliste che sono sfondo teorico del principio di normalizzazione. Andrò ancora oltre ciò, rivendicando che la teoria marxista ha avuto un’influenza sulle lotte che le persone disabili hanno ingaggiato per rimuovere le catene dell’oppressione abilista, mentre il principio di normalizzazione è stato nel migliore dei casi a margine delle lotte, nel peggiore parte del processo di oppressione.

Nel presentare la mia argomentazione, comincerò articolando la mia propria posizione teoretica fondata sull’economia politica marxista, di seguito indicata come teoria materialista. Quindi dimostrerò le inadeguatezze della spiegazione della nascita dell’istituzionalizzazione elaborata dalla teoria della normalizzazione e svilupperò una critica dei principi ideologici che la sostengono. di seguito renderò essere considerazione l’argomento secondo cui la normalizzazione ha avuto successo perché si fonda sull’“esperienza”. Infine guarderò a ciò che la normalizzazione e le teorie materialiste dicono sul cambiamento, dopo aver brevemente descritto le avvilenti condizioni materiali in cui vivono le persone disabili nel mondo.

Prima di procedere oltre e forse necessario spiegare l’uso dei termini utilizzati. A sostenerlo è un’adesione materialista della società; sostenere che la categoria della disabilità è prodotta dalla società capitalista secondo particolari modalità implica una particolare visione del mondo. In questa visione del mondo, la produzione della categoria “disabilità” non è differente dalla produzione di motori per auto o hamburgers. Ciascuno la sua industria, che si tratti di una macchina, di un fast-food o di servizi per la persona. Ogni industria ha la sua forza lavoro che interessi particolari nel produrre in un determinato modo e nell’esercitare quanto più controllo gli è possibile sul processo di produzione.

Produrre una teoria materialista della disabilità

La produzione della disabilità pertanto non è niente più né meno che un insieme di attività specificamente orientata alla produzione di un bene – la categoria della disabilità – supportata da un insieme di azioni politiche che creano le condizioni per permettere lo sviluppo di queste attività produttive sostenute da un discorso che da legittimazione all’intera impresa. Per specificare la nostra terminologia, uso il termine persone disabili in modo generico rifiuto di dividere il gruppo ho secondo i termini delle condizioni mediche, delle limitazioni funzionali o dalla gravità della menomazione. Per me le persone disabili sono definite i secondo tre criteri; (i) manifestano una menomazione (ii) subiscono in conseguenza di ciò un’oppressione; e (iii) si identificano come persone disabili.

benché utilizzi un termine generico ciò non significa che non riconosco differenze nell’esperienza all’interno dei gruppi, ma che nell’esplorare ciò dobbiamo partire dai moti differenti in cui l’oppressione si manifesta su gruppi differenti di persone piuttosto che dalle differenze delle esperienze tra individui con differenti menomazioni. Concordo con chi sostiene che nella mia prima espressione di una teoria materialista della disabilità (Oliver 1990) non ho incluso specificamente un’analisi dell’oppressione cui sono esposte le persone con difficoltà di apprendimento (e utilizzo questo termine specifico in tutto il testo perché è quello scelto dalle più democratiche e prestigiose tra le organizzazioni delle persone con difficoltà di apprendimento).

Nondimeno concordo che

[…] Affinché emerga una teoria rigorosa della disabilità che cominci esaminare tutte le disabilità da una prospettiva materialista, è necessario includervi un’analisi della normalizzazione […] (Chappell 1992.38)

Tentare di incorporare la normalizzazione in una prospettiva materialista, non significa comunque che io creda che, al di là della descrizione, sia di qualche uso. Fondata come è sulla sociologia funzionalista e interazionista, i cui limiti sono ben noti (Gouldner 1970), non fornisce alcuna spiegazione soddisfacente del perché le persone disabili siano oppresse nelle società capitaliste né alcuna strategia per liberarci dalle catene dell’oppressione.

L’economia politica, per altro verso, suggerisce che tutti i fenomeni (incluse le categorie sociali) sono prodotta dalle forze sociali ed economiche del capitalismo stesso. Le forme in cui sono prodotti che dipende in ultima istanza dalla loro relazione con l’economia (Marx 1913). pertanto, la categoria disabilità è prodotta nella forma particolare in cui appare da queste stesse forze economiche e sociali. Inoltre, è prodotta come problema economico a causa dei cambiamenti nella natura del lavoro e delle necessità del mercato del lavoro all’interno del capitalismo.

[…] La velocità dei ritmi produttivi, la disciplina rafforzata, i ritmi imposti e le norme produttive – tutti questi furono mutamenti sfavorevoli rispetto ai ritmi di lavoro violenti e autodeterminati attraverso cui le persone handicappate erano integrate […] (Ryan and Thomas 1980.101)

L’economia, attraverso la disciplina del mercato del lavoro e dell’organizzazione sociale del lavoro, gioca un ruolo chiave nel produrre la categoria della disabilità e nel determinare le risposte sociali alle persone disabili. per spingerci oltre nella spiegazione di ciò è necessario tornare alla questione cruciale di cosa si intenda per economia politica. Ciò che segue è una definizione di economia politica generalmente accettata:

[…] lo studio delle interrelazioni tra amministrazione, economia e società, o più specificamente, le influenze reciproche tra economia, classi sociali, stato e gruppi di pressione. Il problema centrale dell’economia politica è il modo in cui l’economia e la gestione del sociale interagiscono in una relazione di reciproca causazione che influenza la distribuzione dei beni sociali […] (Estes et al 1982)

Il problema centrale in tale definizione condivisa è che si tratta di una spiegazione che può essere incorporata in una pluralità di visioni della società come consenso emergente dagli interessi dei vari gruppi di e forze sociali: questa spiegazione viene riproposta in un libro recente sulla disabilità.

[…] La posizione di una persona in una società influenza il tipo e la gravità della disabilità fisica che una persona si trova ad affrontare e, ancora più importante, la qualità dei servizi di riabilitazione di cui potrà disporre. Indubbiamente, l’economia politica di una comunità detta quali condizioni di salute debitanti saranno prodotte, come e sotto quali circostanze verranno definite, e infine a chi saranno destinati servizi […] (Albrecht (1992.14)

Questa citazione evidenzia in modo in cui Albrecht sviluppa il suo argomento in tre parti. La prima parte mostra come il tipo di società in cui le persone vivono influenza i tipi di disabilità che vi sono prodotti, ovvero come il modo di produzione crea particolari tipologie di menomazione. Inoltre, porta in luce le modalità in cui il modo di produzione influenza l’interpretazione sociale e il significato della disabilità e dimostra infine come, nelle società industriali, la riabilitazione, come ogni altro bene servizio è trasformato in una merce.

La seconda parte dell’argomento mostra come le istituzioni sociali di mediazione in America, come il sistema legale, politico e assistenziale contribuiscono a costituire i modi si specifici in quella disabilità prodotta e il loro ruolo nella trasformazione della riabilitazione in una merce. La parte finale considera cosa ciò significhi in termini di sviluppo futuro della gestione sociale e quali effetti ciò possa avere sulla vita delle persone disabili.

È difficile non concordare con questa formulazione a livello descrittivo, ma il problema con questa visione pluralista dell’economia politica è che la struttura dell’America capitalista stessa si sottrae alla critica così come il ruolo cruciale che l’economia capitalista vi gioca nel forgiare le esperienze di gruppi e individui. È esattamente la stessa critica che può essere sollevata rispetto alla teoria della normalizzazione. La svalorizzazione, secondo la teoria della normalizzazione, è un processo cognitivo universale e le condizioni economiche e sociali sono rilevanti solo per determinare chi ne sarà vittima. L’economia politica, per come viene utilizzata in questo testo, assume una peculiare visione teoretica della società; vede l’economia come fattore cruciale ed in ultima istanza determinante nello strutturare la vita dei gruppi e degli individui. Di più, mentre le relazioni tra i vari gruppi e l’economia possano differire qualitativamente, la relazione strutturale soggiacente persiste.

[…] La convergenza e interazione di forze di liberazione in atto nella società contro razzismo, sessismo, ageism (discriminazione in relazione all’età) e imperialismo economico, mostra come questi “ismi” siano indici dell’oppressione generata da una società che considera determinati gruppi come inferiori. Tutti sono radicati nelle strutture socio-economiche della società. Tutti deprivano gruppi determinati del loro status sociale, del diritto al controllo sulle proprie vite e li condannano all’impotenza. Tutti hanno come risultato la discriminazione sociale ed economica. Tutti privano la società (americana) delle energie e del coinvolgimento di persone creative il cui contributo è fondamentale per rendere la nostra società giusta e umana. Tutti hanno per esito l’alienazione individuale, la disperazione, il risentimento e l’anomia […] (Walton 1979.9)

L’oppressione delle persone disabili è pertanto radicata nelle strutture economiche e sociali del capitalismo. E questa oppressione è strutturata da razzismo, sessismo, omofobia, ageism e disabilismo endemici in ogni società capitalista, e non può spiegarsi come processo cognitivo universale. Per approfondire la spiegazione è necessario ritornare alle radici del capitalismo stesso.

Persone disabili e l’avvento del capitalismo

Qualunque fosse la condizione delle persone disabili prima dell’avvento del capitalismo e qualunque sarà nel futuro, certamente il suo sorgere ha portato con sé esclusione sociale ed economica. Come conseguenza di tale esclusione, la disabilità si è prodotta secondo una configurazione peculiare: come problema individuale che richiede un trattamento medico. Al cuore di tale esclusione ci fu il processo di istituzionalizzazione – e su ciò il consenso è unanime. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo, le istituzioni sono proliferate in tutte le società industriali (Rothman 1971) ma descrivere ciò, come fa Wolfensberger, come “evento senza razionalità” (p.3) è patentemente assurdo. Il marxista francese Louis Althusser (1971) sostiene che tutte le società capitaliste si trovano ad affrontare il problema del controllo sociale, e vi corrispondono con l’azione combinata di apparati ideologici e repressivi.

La ragione del successo dell’istituzionalizzazione è semplice: combina perfettamente questi meccanismi. È repressiva giacché esclude dal mondo quanti non vogliono o non possono conformarsi alle norme e al regime disciplinare della società capitalista. È ideologica in quanto si pone come monito visibile a quanti attualmente sono integrati – se non ti conformi, l’istituzione ti aspetta.

Questa è la ragione per cui l’istituzionalizzazione ha avuto tanto successo. La sua presenza viene incontro perfettamente alla necessità di disciplina e controllo del capitale (Foucault 1972). Inoltre è la ragione per cui, malgrado i problemi dell’istituzionalizzazione siano noti da duecento anni, nulla si è fatto per contrastarli. Indubbiamente il principio della “minore elegibility” è stato fondamentale per il sorgere delle istituzioni. Semplicemente è falso sostenere che solo negli anni recenti si è maturata la consapevolezza dei limiti dell’istituzionalizzazione, se così fosse, semplicemente non avrebbero svolto il loro ruolo ideologico di controllo che le caratterizza. Le visite alle istituzioni, a partire da metà ottocento, assolvevano esattamente a questa funzione: dimostrare quanto terribili fossero nel loro compito di controllo sociale, non certo per motivare il pubblico a una loro riforma (p.8).

Concordo con l’affermazione secondo cui, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, il dominio fisico e ideologico delle istituzioni è entrato in crisi (Scull 1977). Ciò che contesto, comunque, è la ragione che ne viene fornita. Benché non affermi che il principio di normalizzazione sia stato il solo fattore causale di tale movimento alla deistituzionalizzazione o de-carcerazione, Wolfensberger non di meno sostiene che “ruppe la schiena all’istituzionalizzazione” (p.60) e che senza la sua affermazione “ci sarebbero stati forti investimenti nella costruzione di nuove istituzioni, di dimensioni ridotte e distribuite sul territorio” (p.16). Non voglio negare il ruolo delle idee (detto in modo più proprio, delle ideologie) in tale processo, ma i fattori determinanti furono altri.

Ben più importante elemento di svolta verso la cura nella comunità fu il crescente costo della cura istituzionalizzata. L’ideologia si trasformò in azione politica quando ciò, unito ad altri elementi congiunturali come la crescita dei prezzi petroliferi, la proliferazione degli armamenti e così via portarono alla crisi fiscale in molte nazioni capitaliste (O’Connor 1973. Gough 1979). L’importanza della spiegazione con riferimento alla crisi fiscale è in evidente contrasto con l’affermazione di Wolfensberger secondo cui, benché iniziata negli anni cinquanta del secolo scorso, la de-istituzionalizzazione fu un evento “accaduto senza una volontà determinante, una pianificazione e una consapevolezza” (p98) .

La transizione verso il tardo capitalismo (la società post-industriale, come l’hanno chiamata alcuni autori o, nella sua più recente e ammaliante formulazione, la post-modernità) ha visto tale processo evolversi. La questione che si pone è quale sia il significato di tale processo. Cohen suggerisce che

[…] per alcuni si tratta di una messa in questione, un rovesciamento radicale dello stato di cose precedente, per altri è esclusivamente una prosecuzione e un’intensificazione dei meccanismi dell’istituzionalizzazione […] (Cohen 1985.13)

Penso che i sostenitori dell’idea di normalizzazione collocherebbero se stessi nel primo schieramento. Ovvero che lo spostamento dall’istituzione alla comunità sia parte di un processo di rimozione di alcuni apparati di controllo sociale dello stato. Io mi colloco con i secondi, e vedo tale trasformazione come un affinamento e un’estensione del controllo sulle vite nelle società capitaliste. Dopo tutto, la relazione di potere tra persone disabili e professionisti non è mutato in nulla. La situazione descritta da Cohen (1985) rimane immutata.

[…] Lo stesso gruppo di esperti sta facendo le stesse cose di prima. I rituali di base si perpetuano: mappatura di storie dei casi, scrittura di ricerche sociali, organizazione delle tipologie umane, conferenze […] (Cohen 1985.152)

Nel mondo del tardo capitalismo, le stesse persone, benché i nomi dei lavori e le locazioni siamo mutati, stanno trattando le persone disabili esattamente come in precedenza, anche se oggi le attività assumono altri nomi, come “effettuare una valutazione in relazione ai bisogni” o “produrre un piano di assistenza” in Gran Bretagna. Altrove possono chiamarsi “Piano Educativo Individualizzato”, social brokerage o così via. Ma il fatto materiale rimane, sono ancora i professionisti a gestire la vita delle persone disabili.

L’ideologia della normalizzazione

Tutti I mutamenti sociali richiedono un’ideologia che sostenga la loro razionalità economica. Così l’ideologia che sostenne l’istituzionalizzazione fu terapeutica e medica, in base a ciò, rinchiudere le persone negli istituti era una cosa buona tanto per la salute degli individui così come per la salute della società. La normalizzazione, si può affermare, è l’ideologia (o le ideologie) che permette alle persone di essere riportate nella comunità in cui possono essere “normalizzate” o, secondo la successiva riformulazione, ricevere ruoli sociali normali (valorizzati). Dopo tutto, non vogliamo che il diverso, il deviante e il pericoloso tornino nelle nostre comunità. Sono chiaramente consapevole di muovermi su un terreno pericoloso e che sia Wolfensberger (1994) sia Nirje (1993) mi rinfaccerebbero di confondere il normale con la normalizzazione. In questo luogo non vi è lo spazio per dimostrare che ciò non è vero, o per porgere attenzione a tutte le ambiguità degli autori in relazione a questo punto. Voglio chiarire invece che la normalizzazione è parte di un discorso che si radica nella distinzione tra normale e anormale, e certamente Wolfensberger pensa che tale distinzione sia reale anziché socialmente costruita (p.95).

Un approccio materialista suggerirebbe, come fece il filosofo francese Foucault (1973), che il modo in cui parliamo del mondo e il modo in cui lo esperiamo sono inestricabilmente collegati – i nomi che diamo alle cose formano l’esperienza che ne abbiamo e la nostra esperienza delle cose nel mondo influenza i nomi che noi attribuiamo loro. Pertanto le nostre pratiche sulla normalizzazione delle persone e dei servizi costruiscono e mantengono la dicotomia normale/anormale. Appare evidente che le strutture sociali delle società nel tempo del tardo capitalismo non possono essere discusse in un discorso strutturato su normalità/anormalità, perché ciò che le caratterizza è la differenza; differenze basate sul genere, l’origine etnica, l’orientamento sessuale, l’abilità, il credo religioso, la ricchezza, l’età, l’accesso o il non accesso al lavoro e così via. Così nelle società fondate sull’oppressione, queste differenze si intrecciano e cumulano in modi che non sono stati ancora propriamente indagati, e a cui tanto meno si è tentato di rimediare (Zarb and Oliver 1993).

Il concetto di oppressione simultanea (Stuart 1993) può essere più adeguato per comprendere le differenze interne al concetto generico di disabilità. Alcuni autori stanno cominciando ad esporre la propria esperienza in questi termini.

[…] In quanto donna disabile di colore, non posso compartimentare o scindere la mia identità in questo modo. L’esperienza congiunta della mia razza, della mia disabilità e del mio genere è ciò che forgia e informa la mia vita […]  (Hill 1994.7)

Kirsten Hearn evidenzia in modo convincente come lesbiche e gay disabili siano esclusi dalle loro comunità potenziali. In primo luogo,

[…] La comunità lesbica abile e la comunità disabile eterosessuale, ci ignorano […]  (Hearn 1991.30)

e,

[…] nLe questioni relative all’eguaglianza non sono nell’interesse della maggioranza delle persone abili, bianche, di classe media che formano le comunità gay e lesbiche […] (Hearn 1991.33)

Ciò che sto puntualizzando è che il discorso della normalizzazione (qualunque sia l’intento dei suoi propugnatori e malgrado quanto affermino d’esser stati travisati dai discepoli) in nessun caso può adeguatamente descrivere o spiegare società fondate sulla differenza, a causa della propria visione riduzionista della società e dell’umanità. Le differenze individuali o di gruppo non possono essere descritte unicamente nei termini della dicotomia normalità/anormalità e le strutture sociali non egualitarie non possono essere spiegate con la sola referenza ai ruoli sociali, valorizzati o svalorizzati. La normalizzazione non può inoltre servire a trasformare le vite delle persone; un punto questo su cui tornerò.

Il ruolo dell’esperienza

Nello spiegare il perché l’idea della normalizzazione sia parsa tanto potente per molte persone, Wolfensberger sostiene che si connetteva con il senso comune, fornendo loro un linguaggio o discorso condiviso e uno schema mentale (una teoria sociale) capace di raccordare un insieme di temi (p.59). Naturalmente, parlando di ciò, intende la connessione di queste idee con l’esperienza degli accademici, dei professionisti e di chi pianifica i servizi, non con l’esperienza delle persone con dificoltà di apprendimento.

Sostiene altresì che “un’unica teoria o principio può essere applicato a chiunque, non solo a persone con ritardo e non solo a tutti gli handicappati, ma ad ogni altro deviante” (p.58). Ricordo quando la stessa affermazione venne avanzata in inghilterra alla metà degli anni settanta in una conferenza. Io e Vic Finkelstein affermammo in modo perentorio che in nessun modo quel garbuglio indigesto e debole di sociologia interazionista e funzionalista poteva avere qualcosa a che fare con la nostra esperienza di persone disabili.

Le nostre ragioni vennero naturalmente accantonate, così come è spesso accaduto in passato, sostenendo che, in quanto élite disabile, le nostre esperienze non corrispondevano a quelle della maggior parte delle persone disabili (lo stesso motivo può far rigettare ciò che sto argomentando). Naturalmente il carrozzone della normalizzazione giunse in Gran Bretagna, nei dipartimenti dei servizi sociali, delle autorità sanitarie e delle organizzazioni non democratiche del volontariato. Non però nelleorganizzazioni di persone disabili democratiche allora emergenti. Al giorno d’oggi, nessuna di queste organizzazionidi persone disabili ha adottato il principio di normalizzazione come base teorica o come ragione della propria esistenza.

Le nostre esperienze alla conferenza rispecchiavano ciò che avevamo appreso sulle politiche della disabilità. Gli esperti abili ci dicevano che non solo conoscevano meglio di noi i nostri problemi, ma che conoscevano anche migliori soluzioni. Già allora le persone disabili stavano sviluppando visioni autonome sia su questi esperti che volevano mappare e colonizzare le nostre esperienze sia sui problemi reali delle persone disabili. Queste proposte furono raccolte in un piccolo “libretto rosso” chiamato Principi fondamentali della disabilità (UPIAS 1976), testo che a mio parere è infinitamente più utile alle persone disabili di quanto lo siano tutte le pubblicazioni sulla normalizzazione.

Questo volumetto è ormai introvabile, ma le persone disabili gli sono enormemente debitrici. Io, come molte altre persone disabili, riconosco apertamente il debito per come ha forgiato la nostra comprensione della disabilità (Oliver 1995). Essendo da anni esaurita la sua disponibilità, riproduco qui due passaggi: il primo espone il ruolo degli “esperti” nelle nostre vite, il secondo individua i nostri problemi reali.

[…] L’Unione sostiene che, lungi dall’essere troppo attenti alle cause della disabilità, gli “esperti” del campo non si sono mai rivolti alle cause reali. Il fatto che ritengano di occuparsi delle cause mentre si concentrano sugli effetti, confondendo disabilità e menomazione, motiva l’imperativo delle persone disabili a diventare i propri esperti. Solo quando riusciranno ad afferrare questa expertise le persone disabili diverranno capaci di smascherare il tentativo degli “esperti” di camuffare come qualcosa di “completamente differente” la lotta “spontanea” tradizionale, finora fallimentare, contro alcuni aspetti della disabilità, come la povertà […]

La disabilità è qualcosa imposto sulle nostre menomazioni attraverso il modo in cui siamo senza necessità isolati ed esclusi dalla piena partecipazione alla vita sociale. Le persone disabili sono pertanto sono un gruppo sociale oppresso. Per comprendere ciò è necessario afferrare la distinzione tra menomazione e la situazione sociale, chiamata “disabilità”, che le persone con menomazione vivono. Così definiamo menomazione la mancanza o il difetto funzionale di un arto, organo o meccanismo del corpo; e disabilità lo svantaggio o restrizione nell’attività cagionata dall’organizzazione contemporanea del sociale che non si fa carico dei vincoli delle persone con menomazioni e pertanto le esclude dalla partecipazione dalle attività sociali. La disabilità fisica è pertanto una forma di oppressione sociale.  (UPIAS 1976)

Fu partendo da queste elaborazioni che cominciai, con altre persone disabili, a scrivere e proporre il modello sociale della disabilità. Per ciò che mi riguarda, concettualizzai i modelli della disabilità sulla distinzione binaria tra ciò che chiamai il modello individuale e il modello sociale della disabilità (Oliver, 1983). Non si trattava di una proposta originale elaborata in qualche torre d’avorio, ma un tentativo di dare senso a un mondo per gli studenti e gli altri professionisti del lavoro sociale cui allora insegnavo. L’idea della distinzione tra modello individuale e modello sociale era evidentemente lo sviluppo della distinzione proposta da UPIAS tra menomazione e disabilità contenuta nei Principi fondamentali della disabilità (1976).

L’articolazione di questa nuova visione della disabilità non ricevette un plauso unanime. All’inizio furono i professionisti, gli amministratori dei servizi e i dirigenti delle associazioni per le persone disabili che, dato il loro interesse a perpetuare lo status quo strutturato sul modello individuale, misero in questione la validità sperimentale e il valore esplicativo del modello sociale. Successivamente si è verificato un mutamento di paradigma ed oggi molti professionisti ed associazioni hanno sposato il modello sociale, quantomeno nella teoria (DHSS 1988 Gillespie-Sells and Campbell 1991). Se effettivamente poi ciò sia servito a mutare le pratiche professionali, è tutt’altra questione ed esula dai fini di questo testo. L’articolazione del modello sociale venne accolta in modo ben più entusiastico dalle persone disabili, perché si connetteva immediatamente alle loro esperienze. Divenne presto la base per le consapevolezza delle persone disabili e successivamente delle loro rivendicazioni. Venne adottato dalle organizzazioni democratiche delle persone disabili in ogni parte del mondo, incluse l’internazionale delle persone disabili (DPI) e dal consiglio britannico delle organizzazioni delle persone disabili (BCODP) e rimane al centro delle loro azioni.

Leggendo i commenti di Wolfensberger su come Changing Patterns venne redatto, sono sbalordito da quanto furono fondamentali le risorse economiche (biglietti aerei, sistemazione in hotel, segretari di supporto). In modo simile, l’organizzazione mondiale della sanità (WHO) ha speso milioni di sterline, dollari e yen per descriverci e classificarci, fallendo miseramente (Wood 1980).

Le persone disabili, le cui elaborazioni intellettuali hanno prodotto il modello sociale, lo hanno fatto senza avere accesso alle risorse a disposizione delle superstars accademiche, ai professionisti e agli amministratori dei servizi. Imaginate quanto più avanti saremmo se una frazione di tali risorse fosse servita a sviluppare la nostra teoria sociale, i nostri parametri per la qualità dei servizi e i nostri propri schemi di classificazione.

Le condizioni materiali delle persone disabili nel mondo

Lo sviluppo di una teoria materialista della disabilità ci richiede di comprendere le condizioni materiali in cui le persone disabili vivono nel mondo. Una recente ricerca americana (Despouy 1991) conferma le stime precedenti che valutano in più di cinquecento milioni le persone con menomazioni nel mondo, ovvero una persona su dieci. Il rapporto procede affermando che almeno “il 25% dell’intera popolazione mondiale subisce le conseguenze negative legate alla presenza di disabilità”.

Sono pochi gli studi compiuti a livello globale sulle condizioni di vita delle persone disabili, il rapporto dell’ON giunge alle seguenti conclusioni.

[..] Queste persone spesso vivono in condizioni deplorevoli, dovute alla presenza di barriere fisiche e sociali che impediscono loro la piena integrazione e partecipazione alla vita della comunità. La conseguenza di ciò è che milioni di persone disabili nel mondo vivono segregate e deprivate di ogni diritto e conducono una vita misera e segregata […] (Despouy 1991.1)

Per dare corpo a quanto affermato faremo riferimento ad un recente numero speciale della rivista New Internationalist (No 233/July 1992) intitolato ‘Vite disabili’.

Dei 500 milioni di persone disabili nel mondo, 300 milioni vivono in paesi in via di sviluppo, di questi 140 milioni sono bambini e 160 milioni donne. Uno su cinque, ovvero cento milioni di persone, sono disabili a causa della malnutrizione. Nei paesi in via di sviluppo, solo l’un per cento delle persone disabili ha accesso a qualche forma di riabilitazione e l’80% delle persone disabili vivono in Asia e nell’area del Pacifico, ma ricevono solo il 2% delle risorse disponibili per le persone disabili. Nel terzo mondo, la sopravvivenza dei traumatizzati spinali nei due anni successivi all’evento è ai livelli precedenti alla seconda guerra mondiale nei paesi evoluti.

Benché i dati siano limitati, non c’è dubbio che, in tutto il mondo, esiste un profondo legame tra disabilità e povertà.

[…] Si evidenzia un legame profondo tra povertà e disabilità: malnutrizione, madri indebolite dalle continue gestazioni, programmi di immunizzazione inadeguati, incidenti domestici in case sovraffollate, tutto ciò contribuisce all’incidenza della disabilità tra le fasce povere della popolazione. Inoltre, la disabilità crea ed accresce la povertà, aumentando l’isolamento e il disagio economico, non solo per il soggetto che ne è vittima, ma per tutta la famiglia: non c’è dubbio che le persone disabili sono tra i più poveri nelle nazioni povere […] (Coleridge 1993.64)

Benché in termini assoluti le condizioni di vita delle persone disabili nel mondo sviluppato siano decisamente migliori rispetto al terzo mondo, non di meno a loro volta esperiscono condizioni di vita decisamente inferiori al resto della popolazione. Così, ad esempio, più del 60% delle persone disabili in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, vivono al di sotto della soglia di povertà.

I mercati del lavoro nel mondo sviluppato continuano a discriminare al punto che le persone disabili hanno il triplo delle possibilità di non trovare lavoro rispetto alle persone abili. Nell’educazione, la maggioranza dei bambini disabili sono ancora educati in scuole speciali segregate e meno di 3 su mille raggiungono un’istruzione superiore. Ogni indicatore dimostra che la situazione è peggiore per donne e persone di colore rispetto a maschi e bianchi.

Benché situazioni particolari possano mettere in questione il quadro proposto, è innegabile che ne emerge una rappresentazione autentica delle condizioni di vita delle persone disabili nel mondo. La questione ora è: cosa si deve fare per affermare un mutamento virtuoso? Nella prossima sezione analizzerò le diverse prospettive, materialista e della normalizzazione, riguardo al cambiamento delle condizioni di vita delle persone disabili.

Come realizzare un mutamento economico, politico e sociale virtuoso? 

Nel raffrontare ciò che la normalizzazione e la teoria materialista hanno da proporre in relazione a questi cambiamenti, mi concentrerò su tre aree interrelate; mutamento negli individui, nelle politiche sociali e nei programmi di assistenza e cambiamento attraverso l’azione politica 

In parte, sospetto, a causa dell’influenza non riconosciuta del modello sociale, sia Nirje sia Wolfensberger si affannano a sostenere che normalizzazione non significa rendere gli individui normali. Si spingono oltre fino a sostenere che la normalizzazione si applica con profitto anche all’ambiente, Wolfensberger comunque ammette con onestà che

[…] per quanto è vero che l’abnormalizzazione abnormalizza la persona e non solo l’ambiente, non si può dire che la normalizzazione normalizzi solo le condizioni di vita… In breve non vedo in che modo la formulazione di Nirje escluda l’azione sulla persona […] (Wolfensberger 1994.97)

Questa affermazione finale solleva questioni che motivano preoccupazione. La storia dell’oppressione è sostenuta dal permettere “azioni sulle persone” e pone la questione di chi debba decidere quali azioni e su quali persone. Rispondere, come fa la normalizzazione, che le condizioni di vita prevalenti, gli ambienti e i valori sono quelli cui normalizzare gli individui, pone enormi questioni e può condurci sulla strada dello sterminio, della tortura fisica, della sterilizzazione, della carcerazione e  del controllo della mente. Questa lista è parte della nostra storia di persone disabili, che stiamo scoprendo ora che cominciamo a scrivere la nostra storia, e non una reazione emotiva o un immaginario esagerato funzionale a finalità politiche (Morris 1991, Coleridge 1993).

La teoria materialista non ha lo stesso problema rispetto al cambiare gli individui, benché voglia cambiare la loro consapevolezza, non i loro corpi, i loro costumi o i loro ruoli sociali. Trasformare la coscienza significa mutare le proprie esperienze in questioni politiche. Questo è il luogo di azione della teoria materialista, collegare i due piani; a livello collettivo le persone disabili possono credere con “falsa coscienza” che le difficoltà che si trovano ad affrontare dipendano dalle loro menomazioni individuali. Pertanto “internalizzano l’oppressione”  (Sutherland 1981, Morris 1991) credendo sia colpa loro se non trovano lavoro, non riescono ad utilizzare i mezzi di trasporto pubblico e così via.

Trasformazioni individuali e sociali sono inestricabilmente congiunte. Comunque, nella teoria materialista gli individui devono trasformare se stessi attraverso l’azione collettiva, non essere trasformati da altri che sanno ciò che è meglio per loro o per la società.

Empowerment, potenziamento, è un processo collettivo di trasformazione in cui gli espropriati si riconoscono parte di una lotta per resistere all’oppressione, per il riconoscimento del loro diritto all’inclusione sociale e ad affermare le proprie visioni del mondo. Centrale a questa lotta è il riconoscimento degli espropriati della loro oppressione; formulato per la prima volta da UPIAS negli anni settanta in relazione alla disabilità, di recente il principio è stato riformulato di recente come parte di una “teoria dell’oppressione” (Abberley 1987).

La normalizzazione vede il miglioramento dei servizi come piattaforma privilegiata per migliorare la qualità della vita delle persone disabili e, indubbiamente, la maggior parte del tempo e delle risorse viene investito esattamente in ciò. La posizione di Wolfensberger su questo non è equivoca; si oppone in modo veemente ai servizi forniyi dalle istituzioni, ma ha speso la sua vita nello sviluppo e nel miglioramento dei servizi basati su comunità. Come ho suggerito in precedenza, ciò perché considera i servizi basati sulla comunità come radicalmente differenti da quelli istituzionali in quanto non sono parte degli apparati di controllo sociale dello stato.

Benché la sua posizione sui servizi di comunità non sia equivoca, certamente è contraddittoria. Nel testo che propose alla conferenza internazionale sulla disabilità a Bristol nel 1987, fu prossimo a collocarsi su posizioni materialiste sui servizi alla persona, non solo istituzionali, allorché sostenne che la loro finalità reale (funzione latente) era di produrre posti di lavoro per la classe media, e perché ciò si perpetui

[…] allargare l’impero dei servizi alla persona non è sufficiente per assecondare tutti i mandati di un’economia fondata sulla produzione postprimaria. In più, è necessario rendere i servizi esistenti quanto più improduttivi possibile – se possibile vanno resi antiproduttivi, così da creare dipendenza, da creare persone menomate anziché abilitarle […]  (Wolfensberger 1988.34)

Il problema di questa formulazione è che scambia il sintomo con il problema. Se i servizi alla persona nel capitalismo sono parte degli apparati delegati al controllo sociale, come sostiene la teoria materialista, la ragione per cui danno impiego alla classe media è semplice; non si tratta di un gruppo sociale che ponga sfide al capitalismo, non ha pertanto bisogno di essere controllata, ma può invece farsi agente del controllo altrui.

Esattamente per questa ragione la rivendicazione delle persone disabili nel mondo non è più per il miglioramento dei servizi, ma per la presa di controllo su di essi. Inoltre, le loro lotte sulle questioni dell’assistenza riguardano la produzione e il controllo dei loro propri servizi attraverso i centri per la vita indipendente, la fornitura diretta di risorse economiche che permettano loro di scegliere i servizi di cui necessitano e il peer counselling, il mutuo sostegno, per aiutarli a sviluppare le abilità e il supporto necessario per soddisfare i bisogni individuali e collettivi. Questa non è una posizione contraria all’assistenza sociale o contro i servizi alla persona, ma pone la questione di chi debba esercitare il controllo e nell’interesse di chi.

Riguardo al tema del mutamento politico, nella teoria della normalizzazione è difficile trovare qualcosa più della descrizione delle cose a cui le persone svalorizzate hanno diritto. Come affermare tali diritti a livello politico non è cosa che venga discussa, benché Wolfensbergersostenga confidenzialmente che se dobbiamo valorizzare il ruolo sociale di qualcuno

[…] sappiamo dalle scienze sociali quali strategie complessive possano essere messe in atto per raggiungere le finalità che ci siamo posti […] (Wolfensberger 1994.96)

Non mi è chiaro a quale scienza sociale faccia riferimento, ma mi pare che siano rimasti pochi scienziati sociali convinti che il concetto di ruolo sociale sia di qualche valore per lo sviluppo di una teoria sociale, e tanto meno per la promozione di un’azione politica. Talcott Parson ed Erving Goffman non sono morti solo materialmente, ma lo sono altresì le loro elaborazioni; le versioni macro e micro della teoria dei ruoli.

Si può desumere dagli scritti sulla normalizzazione che il mutamento politico sarà un dono dai potenti agli espropriati una volta che siano giunti ad una piena comprensione della disabilità attraverso gli insegnamenti sella normalizzazione e della valorizzazione sociale dei ruoli. In nessun luogo la normalizzazione riconosce che

[…] la convinzione che valga la pena di combattere per qualcosa deve venire, almeno in parte, dall’interno dei gruppi. L’alternativa è aspettare passivamente che i gruppi egemoni concedano un’eguaglianza limitata, che non muti sostanzialmente lo status quo, cosa peraltro che questi sono motivati ad evitare […] (Dalley 1992.128)

Di nuovo, la teoria materialista è tanto più avanzata riguardo al mutamento politico. Sostiene che possa realizzarsi solo attraverso la lotta, lotta che deve realizzarsi da parte dei gruppi oppressi contro le forze di oppressione. Ciò significa inevitabilmente scontrarsi con gruppi potenti, interessi e strutture, giacché la storia insegna che mai chi ha dei privilegi è disposto a farsene espropriare, per quanto ingiusti siano.

Per ciò che riguarda le persone disabili, abbiamo visto negli ultimi quindici anni le persone riunirsi e organizzarsi come movimenti, locali, nazionali e internazionali. In Gran Bretagna, ad esempio, per sostenere questa crescente consapevolezza delle persone disabili, per fornire una piattaforma per la ridefinizione delle problematiche legate alla disabilità e per promuovere i temi della vita indipendente e della lotta alla discriminazione, si è formato nel 1981 il British Council of Disabled People (BCODP) il cui successo nella decade successiva è esclusivo merito delle persone disabili (Hasler 1993).

La sua nascita e il successivo sviluppo si sono realizzati senza il finanziamento governativo o delle tradizionali associazioni a favore dei disabili. Al contrario, il BCODP venne criticato ai suoi esordi come elitista, isolazionista, non rappresentativo delle persone disabili e marxista da parte di una serie di persone abili non rappresentative di nulla, da accademici di destra e sinistra, dagli staff isolati ed elitisti, dai vertici della gestione delle organizzazioni tradizionali per i disabili e da professionisti le cui carriere dipendono dalla condizione di dipendenza delle persone disabili.

Malgrado tanti attacchi, BCODP si è rinforzata fino a rappresentare 90 associazioni e 300.000 persone disabili. Queste iniziative hanno fatto dell’associazione la sola voce rappresentativa delle persone disabili in Gran Bretagna, e ciò ha motivato in tante persone disabili la crescita della consapevolezza identitaria. Simili storie di affermazione dei movimenti delle persone disabili si sono realizzate contemporaneamente anche in altre parti del mondo, anche in alcuni paesi in via di sviluppo.

Questo senso crescente di un’identità politica collettiva ha portato a nuove affermatività, non solo nella rivendicazione delle priorità nei cambiamenti, ma anche nei metodi, ricorrendo a tattiche come l’azione diretta e la disobbedienza civile. In più, questo movimento è radicalmente democratico (Dreidger 1988 Oliver 1990 Davis 1993) e la sua voce collettiva domanda l’inclusione delle persone disabili nella nostra società attraverso la fine di ogni forma di oppressione, non fornendo a noi e ai nostri oppressori programmi di normalizzazione o di valorizzazione sociale dei ruoli.

Conclusioni 

In questo testo ho sostenuto che la normalizzazione in quanto teoria sociale è inadeguata in quanto non descrive in modo soddisfacente l’esperienza, la sua spiegazione del perché le persone disabili vivano la loro condizione è assolutamente inadeguato, e il potenziale di trasformazione delle loro condizioni di vita è quindi limitato. Non sono solo quanti osteggiano la normalizzazione a metterne in questione il futuro, comunque.

[…] Cosa deve fare ora la normalizzazione per essere una forza positiva di cambiamento negli anni novanta? La risposta può essere tornare alle sue radici e riallinearsi con le altre teorie sociologiche […] (Brown and smith 1992.176)

Che tale riallineamento, anche con la teoria materialista, possa resuscitare la normalizzazione è dubbio, perché ciò che è in gioco è il tipo di società in cui vogliamo vivere. La normalizzazione offre alle persone disabili l’opportunità di ricevere ruoli sociali valorizzati in una società iniqua che valuta alcuni ruoli più di altri. La teoria materialista offre alle persone disabili l’opportunità di trasformare la società in cui vivono in una in cui tutti i ruoli siano valorizzati. Come persona disabile ho chiaro quale scelta preferire, scelta condivisa dalla maggior parte delle persone disabili che mi sia capitato di incontrare.

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Politics and Language: Understanding the Disability Discourse

1994
(Paper prepared for inclusion in the MA in Disability Studies Programme: Dept of Psychotherapy, University of Sheffield)

Overview

“I am not a disability, I’m me. I have dyslexia and I’ve had polio but I’m not ‘a dyslexic’ or ‘a cripple’ I’m me”
(John Swan, 14 in What it’s like to be me Exley (1981) quoted in Reiser and Mason (1991). I do not propose in this Unit to provide a list of acceptable or unacceptable labels and terminology as this has been done satisfactorily elsewhere (Reiser and Mason 1991. 85 – 90). Nor do I intend to provide a rationale or explanation for what is or is not acceptable as I have done this elsewhere (Oliver 1990. Introduction and Chapter 1).

Instead I will ground the discussion in my own personal, professional and political experience as a disabled person. Then I will discuss the political and theoretical bases for the current controversy surrounding language use which is often subsumed within its own name ‘political correctness’. Next I will move on to consider the implications for policy and practice and this will be done through a discussion of the concept of ‘discourse’. Finally I will return to the politics of language.

The personal and the professional – naming my experience

In writing about language and disability from an insider perspective, it is important that I ground my views in my own experiences as an individual disabled person; as an academic sociologist who makes his living teaching, researching and writing about disability issues; and finally as a political activist committed to producing economic, social and political changes which will help to bring about the inclusion of disabled people into society rather than their exclusion from it. My own personal experience as a disabled person has convinced me of the general sociological importance of personal experience, or, to put it the other way round.

“Social theories are grounded in the knowledge the theorist has gained through personal experience. Facts, rooted in personal reality, are of course utterly persuasive to the theorist. He becomes involved in, sees, experiences, such things as the French Revolution, the rise of socialism, the great Depression, and he never doubts the factuality of his experience.” (Gouldner 1975. 70)

As Gouldner concludes, I have not since doubted the factuality of my experience as a disabled sociologist and political activist. However, in order for you to critically evaluate the factuality of my experience, I need to say a little more about my background. My professional interest in disability did not really come about until some ten years after I became disabled as the result of a spinal injury in 1962. After spending a year in Stoke Mandeville Hospital, I spent three years unemployed and thinking I was unemployable – a perception that was reinforced by every single professional I met during that time. In 1966, purely by chance, I was offered a job as a clerk at the young offenders prison near where I lived. Within a matter of months this had changed and I became a lecturer in the education centre of the same establishment and I remained there for six years. However, being unqualified, in 1972 I went to university and read for a degree in sociology. On completion, I remained for a further three years to undertake research and gain my doctorate.

As a postgraduate student, my interests were in the fields of deviance and crime rather than illness and disability. The positivist view dominated the academic world at this time; according to this, one did not become involved in subjects in which one had a personal involvement or interest because this made objectivity very difficult, if not impossible. However, as a postgraduate student with a young family to support, when the Open University began looking for course tutors for its new disability course, it was one of the few occasions when disability became a positive advantage. In addition in my own research I was exploring the supposed links between crime and epilepsy (Oliver 1979. 1980) and this inevitably meant that I had to read some medical sociology because epilepsy was conceptualized as illness rather than deviance. I quickly discovered that then, as now, many medical sociologists proceed on the assumption that illness and disability are the same thing. When I began to read some of the things that able-bodied academics, researchers and professionals had written about disability, I was staggered at how little it related to my own experience or indeed, of most other disabled people I had come to know. Over the next few years it gradually began to dawn on me that if disabled people left it to others to write about disability, we would inevitably end up with inaccurate and distorted accounts of our experiences and inappropriate service provisions and professional practices based upon these inaccuracies and distortions. Incidentally, it was at this point in history that women were beginning to reject male accounts of their experiences and black people were vehemently denying the accuracy of white descriptions of what it was like to be black. This questioning had reverberations throughout the academic world, calling into question the whole notion of objectivity and bringing subjectivity onto the academic agenda. As a sociologist I found myself supporting the call for a committed and partisan sociology (Gouldner 1975). As a disabled person I found myself empathizing with the position of feminists who say “… objectivity as the word men use to talk about their own subjectivity” (Rich, quoted in Morris 1992). As a disabled sociologist I found myself in the ‘academic disability ghetto’ but determined to render an accurate, undistorted and wholly subjective account of disability.

Central to providing subjective accounts of experience in general is taking control of the processes of naming, defining and describing that experience, as the following quote illustrates.

“In other words, social theory, coming to terms with social life, means defining, describing, or naming our experience, our historical reality for ourselves rather than living with a definition imposed upon us” (Wallach Bologh 1991. 38) But, in order to be able to name those experiences authentically and effectively, we need the collective strength of self-organization around us, again as women know only too well.

“Feminists and all those committed to emancipatory theorizing must challenge the dominant, oppressive and repressive cultures of these institutions by creating a space and culture, a holding environment, in which we can come to terms with our social realities and their representations. The ongoing process of creating a holding environment for ourselves and each other, a social, intellectual space for political, intellectual sociability, for reflecting on our given ‘realities’, strengthens and empowers us to address and challenge the oppressive and repressive nature of those realities and the representations of those realities. (Wallach Bologh 1991. 41). It is no accident, therefore, that central to this process for both women and disabled people is to seek to exert control over language and the way it is used

 Controlling language – naming our own experience

It is often assumed that the function of language is communication. While it is undoubtedly true that communication is a function of language, it is not the only one. Language is also about politics, domination and control.

“The first and most important thing to remember about discussions of language and disability is that they arise because disabled people experience discrimination daily and are denied the same rights and opportunities as the rest of the population” (Barnes 1993.8) These differing views of language can be seen in the recent debates about political correctness. The right wing critique of what they, right wing critics themselves have named, ‘the political correctness movement’ suggests that trying to take control of the naming of experience by developing non-racist, non-sexist or non-disablist language is either ridiculous or dangerous. Thus they claim that it is ridiculous for disabled people to want to be called ‘the physically challenged’ or ‘the differently abled’ and they claim that it is dangerous to try and dispense with ‘scientific’ labels such as ‘mental retardate’ in favour of those chosen by people themselves such as ‘person with a learning difficulty’. There are two points I want to make about this. Firstly the terminology that is ridiculed is usually not the terminology people use to talk about themselves – the vast majority of democratic organizations of disabled people want to be called exactly that; disabled people, not some name thought up by our critics. Secondly, in respect of danger, it is not unusual for right wing critics to use terminology like ‘mind control’ or ‘thought police’ in respect of those of us who think what we are called is important. I myself have been called ‘a linguistic terrorist’ for calling a friend ‘a survivor of the mental health system’ rather than ‘mentally ill’, ‘a schizophrenic’ or some other more or less accurate descriptive term. At the individual level, using the terminology that individuals prefer is a matter of dignity and respect which costs me nothing and does not control my mind. At the policy level, I have the suspicion that calling someone a ‘retardate’ or ‘a schizophrenic’ makes it easier for us as a society to lock them up, drug them into insensibility, electrocute or even kill them. It is not quite so easy to do these things to a survivor of the mental health system or a person with a learning difficulty.

Of course, I am not so naïve to suggest that changing labels from the negative to the positive inevitably means that people will be treated more humanely; just that it increases the possibility. Nor am I suggesting that how we label people is all that is at stake when we discuss the roles and use of language. In recent years, under attack from post-modernist social theory, our ideas about the role and function of language have undergone a radical shift.

“There is no master of language. Its speakers are only travellers along pathways that have emerged in the course of what is a collective and organically developing phenomenon”. (Lecercle 1990.87)

This view suggests that language cannot be understood merely as a symbolic system or code but as a discourse, or more properly, a series discourses. The advantages of this are that discourses are treated as contingent; they arise, change and disappear. This view also understands signification or naming as action rather than as mere representation and suggests that social meanings do not constitute a single, symbolic system. Finally, it allows for the existence of the power and inequality that exists in society to be reproduced in language use.

The discourse of disability in policy and practice

In order to fully understand this in respect of policy and practice, it is necessary to further develop the concept of ‘discourse’. The French philosopher Foucault 9173) suggests that the way we talk about the world and the way we experience it are inextricably linked – the names we give to things shapes our experience of them and our experience of things in the world influences the names we give to them. This concept and its relationship to language has been described as follows;

“Discourse is about more than language. Discourse is about the interplay between language and social relationships, in which some groups are able to achieve dominance for their interests in the way in which the world is defined and acted upon. Such groups include not only dominant economic classes, but also men within patriarchy, and white people within the racism of colonial and post-colonial societies, as well as professionals in relation to service users. Language is a central aspect of discourse through which power is reproduced and communicated”. (Hugman 1991.37)

A good example of this in respect of policy is the way the discourse of caring has been central to recent attempts to close down long-stay institutions of all kinds. In linking language to politics through the notion of discourse, Ignatieff argues that the discourse of welfare provision which emphasizes compassion, caring and altruism, is inappropriate when applied to a second discourse, that of citizenship.

“The language of citizenship is not properly about compassion at all, since compassion is a private virtue which cannot be legislated or enforced. The practice of citizenship is about ensuring everyone the entitlements necessary to the exercise of their liberty. As a political question, welfare is about rights, not caring, and the history of citizenship has been the struggle to make freedom real, not to tie us all in the leading strings of therapeutic good intentions”. (Ignatieff 1989. 72)

Hence the linking of caring to welfare has unfortunate consequences because it has served to deny people their entitlements as citizens. 

“The pell-mell retreat from the language of justice to the language of caring is perhaps the most worrying sign of the contemporary decadence of the language of citizenship .. Put another way, the history of citizenship of entitlement is a history of freedom, not primarily a history of compassion.” (Ignatieff 1989. 72). Thus the very language of welfare provision serves to deny disabled people the right to be treated as fully competent, autonomous individuals, as active citizens. Care in the community, caring for people, providing services through care managers and care workers all structure the welfare discourse in particular ways and imply a particular view of disabled people. As early as 1986, disabled people in response to the Audit Commission’s critical review of community care, were arguing for an abandonment of such patronizing and dependency creating language (BCODP 1986). Organizations controlled and run by disabled people including the BCODP, the Spinal Injuries Association and the newly formed European Network on Independent Living have already begun to move to a language of entitlement emphasizing independent living, social support and the use of personal assistants. One could provide a similar analysis of the emergence of the term ‘special’ in education. Arising from the concern of the Warnock Committee (DES 1978) to de-medicalise the education of ‘handicapped children’, as they were then called, special was the label chosen to refer to the kinds of provision these children (who were themselves re-defined as having learning difficulties) would need. There were three reasons for this change in language; firstly to try to replace negative labels (‘delicate’, ‘sub-normal’ etc) with more positive ones; secondly to switch the focus from the child’s medical to their educational needs; and thirdly, to provide a linguistic basis to enable both the provision and the practice of special education to continue. In the terms used earlier, it could be said that the Warnock Report tried to change the discourse of special education from a medical to an educational one. It tried and failed for exactly the same reason that the discourse of care in the community failed; there are fundamental incompatibilities between care and entitlements, between special and ordinary which make both provision and practice contemporaneously difficult and ultimately impossible. Testament to this are the personal experiences of ‘special people’.

“All my life I have known that I was ‘different’ – special even – because the ‘fact’ has been brought home to me by the reactions of people around me. They either go out of their way to be nice to me, ignore me, or go out of their way to be awful to me, and it took me a long, long time to realise that these reactions were not necessarily to do with the kind of person I was, rather with what people assumed I was”. (Gradwell 1992. 17)

Further, it has been argued that this change to a discourse of the special has also failed at the policy level because “The phrase ‘special educational needs’, for example, frequently justifies the separation of disabled children from non-disabled children into segregated special schools” (Barnes 1993.8) Before going on to talk about the political implications of this, there is one further point needs to be made explicit; to be against the discourse of caring in welfare or special needs in educational provision is not to be against caring or against welfare or against education. It is to argue that such discourses are an inappropriate basis to develop a proper discourse of welfare provision and professional practice and that the language of the special is an inappropriate basis to develop a proper discourse about schools and teaching.

 Politics and the power of language

Politics is not just about voting every so often but at the micro-level it is about the exercise of power in a range of personal and social relationships. As far as I am aware there have been no empirical studies of the micro-politics of the discourse of the special in education, but there has been an important study of discourse in probation practice. It asserts that

“Language is fundamental to the work of probation officers, whose task is to extract the ‘truth’ surrounding criminal behaviour from a number of sources including the defendant, other social workers, official records, reports, the medical profession and the police. From this variety of different and competing discourses, an official explanation of offending is assembled and a ‘treatment’ plan produced, which will have legitimacy in court. The linguistic rules of engagement require the probation officer to collate and translate explanations of unlawful behaviour into codes recognisable to official judicial bodies.” (Denney 1992. 135). In this Unit I have asked not to set you any exercises but a few minutes rewriting the above quote as a special education rather than a probation discourse will illustrate the role that language can play in maintaining particulate sets of power relationships between professionals and their … The reason for the gap is to emphasise that we do not have a language which enables us to talk about such relationships in ways that are not structured by hierarchies and power: for example, doctor-patient; teacher-pupil; social worker- client; lecturer-student; and most recently provider-user. Denney, following post-modernist theorists, suggests that part of the solution to this problem is deconstruction.

“The deconstruction of official discourse could provide the beginnings of a process that penetrates dominant and discriminatory conventions”(Denney 1992. 135). But deconstruction may make the problem disappear altogether. Hart (1994), in an as yet unpublished study of special needs practice, draws attention tot he position taken by the National Commission on Education (1993) that ‘flexibility to respond to individuals pupils’ difficulties may in future prove more successful than maintaining a separate category of “special” need. While coming to the conclusion that maintaining the term ‘special’ in untenable, she warns.

“… that simply to dispense with a concept of ‘special’ education, now that the distinction has been acknowledged to be untenable, would not serve the best interests of children. The former distinction needs to be replaced by a new distinction of quite a different order, which will help to establish and articulate a convincing alternative to individual-deficit ways of conceptualising and pursing concerns about children’s learning”. (Hart 1994. 270).  What this is drawing attention to is the inescapable fact that language and its use is not just a semantic issue; as has already been argued, it is a political issue as well. And a political issue at the macro-level. Probably the best example of the macro-politics of language is the struggle of deaf people over the centuries to keep their own (sign) language alive. Ladd (1990 10) refers to this as ‘a battle between cultures that has parallel in those battles with aboriginal and other native cultures’. In a recent contribution to the debate between the World Health Organisation and organisations of disabled people over their international classification scheme (Wood 1980), I make a similar point about the macro-politics of language, trying to draw parallels between the struggles of disabled people to control the language that is used to describe and classify us, with similar struggles by other oppressed groups.

“The imposition of colonial languages on the natives, Oxford English on the regions, sexist language on women, racist language on black people, spoken language on deaf people, and so on, are all forms of cultural domination. Pidgin, dialects, slang, anti-sexist and anti-racist language and sign language are not, therefore, quaint and archaic forms of language use but forms of cultural resistance. (Oliver, 1989). One final point needs to be made about the political function of language. It is not enough to realise that language is a political issue simply in an overt sense of the word. Politics as the exercise of power is sometimes as much about keeping things off the political agenda as it is about ensuring that they are debated (Lukes 1974). Thus the point about language is that it may sometimes serve to obscure or mystify issues – even the language rights as Hall graphically reminds us

” … the language of rights is frequently deployed to obscure and mystify this fundamental basis which rights have in the struggle between contending social forces. It constantly abstracts rights from their real historical and social context, ascribes them a timeless universality, speaks of them as if they were ‘given’ rather than won and as if they were given once-and-for-all, rather than having to be constantly secured.” (Hall 1979. 8). Hall is also making the important point that rights are never one for all time; women and gay men and lesbians have seen some of their legal rights disappear in recent years and many women would argue that their social rights to use public transport after dark no longer exist. The discourse of rights, both human and civil, has played a major role in disability politics in recent years and this requires us to broaden our understanding of the issues in fundamental ways. To begin with, our current segregative practices and segregated provision, which continue to dominate the education of disabled children, have to be seen for what they are; the denial of rights to disabled people in just the same way as others are denied their rights in other parts of the world.

As I wrote in a review of a recent re-appraisal of special education.

“The lessons of history through the segregation of black people in the United States and current struggles to end segregation in South Africa have shown this to be so. To write as if segregation in schools, or from public transport systems or from public spaces or inter-personal interactions in our own society is somehow different, is to de-politicise the whole issue”. (Oliver 1991). What is both interesting and unfortunate about the integration/segregation discourse in the area of education however, has been its narrowness, both in terms of its failure to see integration as anything other than a technical debate about the quality of educational provision. Its failure to explicitly develop any connections with other debates about segregation of, for example, disabled from public transportation systems, of black people in South Africa, of blind people from public information, or of the poor from major parts of our cities, has been a major omission. An important reason for this is that integration as a concept, has been taken over by politicians, policy makers, professionals and academics, who have discussed and debated it, divorced from the views of disabled people themselves. Even my own discipline of sociology, which has a justifiable reputation for criticising everything in sight including itself, has focused little on the exclusion of disabled people from society and its institutions (Oliver 1990).

While it is certainly true that in the early eighties sociologists played a significant role in exposing the humanitarian ideology underpinning the segregation of children with special needs and exposing the various vested interests concerned (Tomlinson 1982. Ford et al 1982), this was somehow seen in isolation from other exclusionary processes (Oliver 1985). Further, sociologists have spent less time examining and criticisng the theory and practice of integration except for a questioning of the romanticism of the integration movement (Barton and Tomlinson 1984) and an articulation of its moral and political basis (Booth 1989). What is at stake is this dispute within the integration/segregation discourse is nothing less than our view of both the nature of social reality and the role of politics in society. One view sees integration as a humanitarian response to unintended consequences in our past history which can be changed by the development of paternalistic policies. The alternative view suggests that

“Integration is not a thing that can be delivered by politicians, policy makers or educators, but a process of struggle that has to be joined”.(Oliver 1989. 143). And in recognition of that, it is perhaps time we changed the name of the discourse to that of inclusion/clusion rather than integration/segregation. The reason for this change is that the discourse of integration has largely been a static one about location whereas inclusion is a process which

“.. fundamentally challenges the traditional approach which regards impairment and disabled people as marginal, or an ‘afterthought’, instead of recognising that impairment and disablement are a common experience of humanity, and should be a central issue in the planning and delivery of a human service such as education” (Mason and Rieser 1994.41).

 Conclusion

In this Unit, I have not discussed the issue of language in ways that suggest that what is at stake is merely changing the labels and terminology we use. Instead I have written about language as a political issue structured by relations of power and have attempted to locate this within post-modernist social theory. I have argued that language is inextricably linked to both policy and practice and it is precisely because of these inextricable links that the right wing critics of political correctness are wrong. We do not use language just to describe the world and name our own experiences of it. Nor does language merely enable us to deconstruct the world and the practices we engage in. It can enable us to conceptualise a better world and begin the process of reconstructing it. We can only believe that attempting to do so is ‘mind control’ or ‘linguistic terrorism’ as far as disabled people or those with special needs are concerned, if we believe that everything is fine and the worlds we inhabit do not need deconstructing and reconstructing. If we believe that we can improve the quality of all our lives through better policy and changed practice, then we have to recognise that language has a central role to play in this improvement.

BIBLIOGRAPHY

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