Inclusione scolastica e universitaria

La presentazione del dibattito evidenzia la differenza fra il paradigma dell’inclusione e l’integrazione.

DIBATTITO SULLA PROPOSTA DELLA LEGGE A. C. 2444 del 2015 (Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali)

Il dibattito si è attivato su Superando (testata giornalistica on-line fondata da Franco Bombressi della Federazione Italiana per il superamento dell’handicap, FISH) fra Salvatore Nocera (Presidente nazionale del Comitato dei Garanti della FISH, Luciano Paschetta (Fand, Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità) e il Gruppo GRIDS.

Un podi coraggio (titolo originale)

Gruppo GRIDS (Gruppo di ricerca Inclusione e Disability Studies).

(Medeghini R., Bocci F., D’Alessio S., Marra A.D., Vadalà G., Valtellina E.)

Introduzione

La proposta di legge 2444 riguardante le norme per migliorare la qualitàdell’inclusione scolastica degli alunni con disabilitàe con altri bisogni educativi speciali offre l’opportunitàper un confronto articolato sull’insieme dei problemi che si sono aperti all’interno del processo di integrazione e sui percorsi per affrontarli. Da diversi anni, infatti, si èevidenziata una caduta di qualitànell’integrazione scolastica italiana, sottolineata dal disagio delle famiglie, delle associazioni e da analisi, studi e pubblicazioni che hanno visto la presenza anche del nostro gruppo di ricerca. Non dobbiamo certamente mettere in secondo piano i risultati ottenuti dal percorso integrativo, ma i segnali di difficoltàdell’integrazione ci sollecitano ad una seria riflessione sui motivi che ne hanno ridotto il potenziale per un cambiamento dell’organizzazione e delle prassi scolastiche.

Quali le possibili cause? Nella presentazione della citata Proposta di Legge vengono indicati i tagli alla spesa pubblica, la mancanza di una formazione sulle didattiche inclusive dei docenti curricolari, la crescente precarizzazione dei docenti specializzati per il sostegno; elementi, questi, che sono individuati come causa della crescente delega del percorso integrativo ai soli docenti specializzati per le attivitàdi sostegno (sovente, e non a caso, indicati semplicemente come docenti di sostegno). Le variabili citate sono degne di sottolineatura, ma sono deboli e insufficienti a spiegare la natura della delega anche perchéquesta si èstabilizzata e rinforzata nonostante i richiami alla contitolaritàe alla coprogettazione delle leggi (104/92), delle relative Circolari Attuative e delle Direttive Ministeriali che si sono presentate negli anni.

Allora, da dove nasce la delega e cosa l’ha mantenuta nel tempo? Proporre una risposta a questo interrogativo significa non eludere un’analisi dello sfondo teorico e culturale dell’integrazione, evidenziando le sue caratteristiche e le ricadute che ha avuto sui problemi oggetto della proposta di legge.

Sfondo dell’integrazione e produzione della delega.

Le leggi 517/77 e 104/92, pur con un peso differente per la variazione del clima culturale e sociale che ne ha caratterizzato la cornice di produzione, assumono, a nostro avviso, almeno due categorie capaci di determinare le prassi educative e sociali che si concretizzano nel meccanismo della delega. In primo luogo il concetto di abilismo che, nella sua dicotomia deficit/abilità, promuove un’idea di essere umano su una scala di abilità auspicabili e ideali: secondariamente,  la categoria deficitaria della differenza come mancanza rispetto ad una normache viene assunta dalla normativa. Da qui, la necessità della certificazione (vedasi anche la legge 170/2010 sui DSA) e la produzione degli interventi di compensazione, adattamento e di normalizzazione (si veda Wolfensberger) scolastica che, nell’area della disabilità, richiedono la presenza e l’intervento dell’insegnante specializzato per il sostegno. Emerge qui il problema dell’inabilità dell’alunno con disabilità come problema individuale e del conseguente ricorso allo specialismo (diagnosi medica, certificazione, insegnante specializzato per il sostegno) che acquista la priorità rispetto alla responsabilità di tutti gli insegnanti, del contesto scolastico e della sua organizzazione.

È in questo passaggio che viene prodotta e legittimata la delega culturale e sostanziale allo specialista, sia esso il neuropsichiatria, lo psicologo o l’insegnante specializzato per il sostegno. In tale prospettiva, l’idea di disabilitàcome esito di condizioni deficitarie richiede insegnanti con conoscenze, strumenti interpretativi e pratiche didattiche «speciali»in grado di dare risposte ai processi socio-relazionali e di apprendimento che si attivano nella scuola e per i quali la scuola non viene considerata attrezzata (concetto ribadito nel documento su La Buona Scuola, nello specifico a p. 78).

La necessitàdi questo «specialismo»(insegnante specializzato e didattica speciale), basato sul deficit del singolo alunno, sulla sua compensazione e sulla difficoltàdella scuola a dare risposte, ha generato e genera percorsi di formazione differenziati (insegnanti curricolari e insegnanti specializzati per il sostegno), favorendo e giustificando una frattura nella professionalitàdocente e nella responsabilitàdella presa in carico non solo degli alunni con disabilità, ma di tutti coloro che hanno difficoltànel loro percorso formativo. La delega al docente specializzato per il sostegno, inoltre, non riguarda solamente il versante didattico e di organizzazione, ma coinvolge anche il rapporto con le famiglie degli allievi con disabilitàper i quali l’insegnante specializzato (e l’assistente educatore) diventano le principali figure di riferimento.

Da questo punto di vista, la delega quindi, non deriva semplicemente dalla scarsitàdi risorse oppure da una mancata applicazione della legge dell’integrazione, ma nasce dai presupposti teorici dell’integrazione stessa (norma, abilismo, compensazione, specializzazione, adattamento, riferimento alle condizioni deficitarie) e, soprattutto, dalla differenziazione formativa delle competenze e dei ruoli degli insegnanti.

A questa prima lettura della delega, possiamo aggiungerne una seconda con il riferimento alla specializzazione e alla cultura relativa alle differenze: da una parte, la specializzazione di un ruolo produce una gerarchia nella quale si attiva la delega alle competenze fra insegnanti in base al riferimento classe o alunno con disabilità, dall’altra, la suddivisione dei ruoli incrementa l’idea di norma e di deficit, di normale e di anormale e gli stereotipi ad essi collegati. Questa ricaduta non si limita agli insegnanti, ma coinvolge anche le percezioni degli alunni di una classe: la rappresentazione della normalità, infatti, viene confermata dal docente curricolare e dalle routine dell’apprendimento che stabilisce (tempi, compiti, interrogazioni, voti), mentre l’insegnante specializzato per il sostegno rappresenta invece la conferma dell’eccezione.

Infine, vi èuna terza lettura della delega che riguarda la resistenza della scuola, dei dirigenti e degli insegnanti verso i processi di cambiamento: non si vuole certo misconoscere la grande mole di esperienze e di pratiche integrative e l’investimento operato da moltissime scuole nella direzione della contitolarità, ma èindubbio che la figura del docente specializzato per il sostegno si ètrasformato da strumento nato per favorire il processo di integrazione, in uno strumento di conservazione e di immunizzazione della scuola per impedire, limitare o tenere sotto governo le richieste di cambiamento dell’organizzazione della classe e della didattica.

Questi i motivi per cui anche i richiami alla contitolarità sono rimasti inerti. Da aggiungere che il tema della delega coinvolge anche gli assistenti per l’autonomia in quanto, sia nel caso di alunni con disabilitàcomplesse che alunni con meno compromissioni, si incrementa la richiesta di competenze e disponibilitànell’accompagnamento dell’alunno con disabilità. Èun tema controverso che non puòessere risolto solo con la formazione episodica e che sottolinea la necessitàdi riconsiderare tale figura nella sua articolazione professionale e formazione al fine di dare un’identitàadeguata alla sua dimensione.

La formazione e la didattica nella prospettiva inclusiva

Se la divisione professionale e la conseguente differenziazione dei ruoli, assieme ad altre variabili, generano la delega, e con essa, come abbiamo visto, la rappresentazione deficitaria della disabilitàe del compagno disabile di classe, risulta la necessitàdi un suo superamento: possono esserci diverse soluzioni, ma quella maggiormente sfidante e incisiva passa da una formazione e da una specializzazione per tutti i docenti senza suddivisione di ruoli o di cattedre (curricolare e specializzazione per il sostegno), associata ad un incremento di docenze per assicurare alla scuola progettazioni ed interventi adeguati: da qui, senza l’alibi della scarsa competenza o della specializzazione dei colleghi, tutti i docenti assumono la responsabilitàverso tutti gli alunni della classe.

Il tema della formazione non può, però, limitarsi al problema dei ruoli professionali, ma deve interrogarsi anche sullo sfondo teorico che puòfondare un’organizzazione scolastica e una didattica inclusive: emerge qui il confronto fra integrazione e inclusione. Se, come èstato brevemente esposto, l’integrazione ha come riferimento l’area dei bisogni educativi speciali, compresa la disabilità, ed èorientata alla compensazione del deficit e all’adattamento ai contesti attraverso l’intervento e il supporto della figura specializzata, l’inclusione si rivolge alle differenze di tutti gli alunni senza interrogarsi su come adattare le persone ad un contesto giàdato, proponendo, invece, di modificare epistemologie, culture e pratiche in grado di passare dall’adattamento al contesto specifico della scuola al cambiamento richiesto alle politiche, all’organizzazione scolastica e alla didattica. La riflessione si sposta, così, dal deficit rappresentato all’interno della persona al tema delle differenze intese come modo originale, personale di proporsi nelle interazioni e agli ostacoli e delle barriere alla partecipazione e all’apprendimento prodotte dall’organizzazione e dalle pratiche scolastiche. La didattica inclusiva, infatti, pone questo interrogativo: èpossibile parlare di inclusione di alunni con disabilitàe altri bisogni educativi speciali quando ci troviamo di fronte alla difficoltàdella scuola e degli insegnanti a dare una risposta sia agli alunni che faticano ad apprendere sia a coloro che vengono definiti impropriamente “eccellenze”e, soprattutto, a frenare la dispersione scolastica? (Non possiamo dimenticare, infatti, che il livello di dispersione scolastica in Italia risulta essere tra i più alti d’Europa, con differenze importanti nelle diverse zone del territorio nazionale). Il problema della didattica coinvolge quindi tutti gli alunni e le loro differenze e richiede il superamento dell’omoge­neizzazione formativa, ripensando l’organizzazione, i tempi e le metodologie per incontrare ed interagire con le diverse modalitàdi porsi nelle relazioni, di pensare, di interpretare di tutti gli alunni.

Da questi presupposti consegue che l’educazione inclusiva non si rivolge solo ad alunni con bisogni educativi speciali, ma a tutti gli studenti, e per questo si propone di trasformare il sistema educativo in modo da farlo corrispon­dere a tutte le differenze presenti in un’aula scolastica. Ed èper questo che abbiamo bisogno di una formazione adeguata e specializzata per tutti i docenti, che non si riduca a domande-risposte, a soluzioni immediate, a suggerimenti di come gestire un problema, ma di una ricorsivitàfra pensiero ed azione che, da una parte, fonda e giustifica le scelte e dall’altra utilizza le informazioni per modificarsi in relazione alle differenze. In questa prospettiva non èsufficiente la conoscenza dei contenuti (in vista della loro trasmissione), ma ènecessaria la padronanza di conoscenze e di strumenti in grado di comprendere come gli alunni interpretano i contenuti, li utilizzano, li elaborano, li automatizzano, li investono(e vi si investono) emotivamente. Centrali sono i processi, centrale è l’insegnante che mette in crisi la sua centralità per incontrare gli alunni, centrale è conoscere chi si ha di fronte, centrali sono la promozione della motivazione e la partecipazione. Indubbiamente è importante conoscere quali possono essere gli ostacoli prodotti da un deficit, da una difficoltà, da un disturbo, ma non èil deficit la partenza; sono le possibilitàche vengono offerte, il modo attraverso il quale l’alunno investe, cerca di interpretare, apprendere, mettersi in relazione con gli altri e sul quale si può innescare la mediazione per l’apprendimento e la partecipazione. Nella didattica inclusiva, l’obiettivo non èil controllo e l’implementazione, ma capire quali possibilitàvengono costruite, quali percorsi l’alunno mette in atto e quali processi si attivano. Stiamo parlando di una formazione di tutti i docenti che abbia come riferimento l’intreccio della disciplina relativa alle materie con processi cognitivi, metacognitivi, stili di apprendimento ed emotivi per incontrare le differenze. Se questo èvero, allora la didattica inclusiva deve innervarsi nella didattica disciplinare e non ridursi ad affiancarsi attraverso il supporto dell’insegnante specializzato, magari attraverso semplificazioni o riduzioni. Ne consegue che il PEI e il PDP non si limitano alla compensazione, non rimangono sempre uguali e indifferenziati: vengono inseriti, invece, nella prospettiva di una progettazione che non èridotta ad una semplice tecnica gestionale, ma si identifica con l’assunzione di uno sguardo piùvasto sulla complessitàdelle relazioni, dell’apprendimento e della socialità.

L’autovalutazione per il piano annuale di inclusione deve allora occuparsi di tutti gli alunni, della didattica, delle metodologie, dell’organizzazione della scuola e della classe, delle relazioni sociali, dei risultati; delle esclusioni, degli abbandoni, delle bocciature e delle loro cause, mettendo in primo piano l’analisi dei contesti di classe e di scuola come potenziali ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione e non solo il riferimento ai singoli alunni e al loro comportamento.

Il problema che dobbiamo affrontare è, quindi, il passaggio dalle “didattiche speciali”integrative alle “didattiche inclusive”che guardano alle differenze intese come modo originale e personale di proporsi nelle interazioni e nell’apprendimento. Questo significa che ordinariamente il diritto all’educazione degli alunni e studenti con disabilità deve essere garantito attraverso strumenti ordinari, diversi dall’insegnante di sostegno, che rispondano al paradigma inclusivoPer questo non serve solo la presenza e la formazione degli insegnanti e dei dirigenti, ma anche di formatori inclusivi. Certo, alcune delle soluzioni prospettate nel disegno di legge sono condivisibili (presa in carico da parte di tutti gli insegnanti curricolari degli alunni con disabilità, numero di alunni nella classe, l’obbligo di formazione), ma la loro attuazione rischierebbe di non produrre un cambiamento se non venisse problematizzato lo sfondo integrativo che ispira il disegno di legge. Ad esempio, attraverso un percorso che indaga il significato dei concetti di disabilitàe di differenze oltre un’interpretazione patologica e funzionalista legata al singolo individuo. Allo stesso tempo, anche l’obiettivo della tutela, insito nel disegno di legge, si esporrebbe ad un incremento se non venisse collegato ad una visione inclusiva della scuola e dei suoi contesti. Da qui il limite di un disegno di legge orfano di una prospettiva che, però, potrebbe essere recuperata nel corso della discussione.

Qualcuno può pensare che lo sfondo inclusivo qui delineato sia condivisibile ma non realizzabile, facendo, soprattutto, riferimento al qui ed ora, dimenticando che questo “qui ed ora”è già anticipato dal pensiero e quindi è già superato. Rimanere in questa dimensione implica il rischio della conferma e di semplici aggiustamenti per fare sempre meglio le stesse cose: serve, invece, un po’ di coraggio per pensarle e farle diversamente con tutti i rischi che ciò comporta. Se ciò non accadesse, potremmo ritrovarci a leggere e a commentare la lettera di una dirigente scolastica, inviata ad una testata nazionale, nella quale si richiedeva l’aumento degli insegnanti specializzati perchéun alunno con disabilitànon aveva potuto partecipare all’inaugurazione dell’anno scolastico per l’assenza dell’insegnante specializzato per il sostegno.

LA RISPOSTA DI SALVATORE NOCERA

( Presidente nazionale del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), della quale è stato vicepresidente nazionale).

Ho letto con molto interesse l’articolo pubblicato il 19 giugno scorso da «Superando.it», dal titolo Nella scuola servirebbe un po’ di coraggio, ad opera degli amici di GRIDS Italy (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies), composto da Roberto Medeghini, Fabio Bocci, Simona D’Alessio, Angelo D. Marra, Giuseppe Vadalà ed Enrico Valtellina. Si tratta di riflessioni assai importanti perché non si limitano a formulare critiche alle deformazioni nella prassi dell’inclusione scolastica in Italia, ma con logica impeccabile toccano il cuore stesso del problema inclusivo italiano. Sono sostanzialmente tre le critiche mosse al nostro sistema, basato sul ruolo del docente per il sostegno cui, di fatto, viene ormai purtroppo delegato il progetto inclusivo: « La delega – scrivono da GRIDS Italy – non deriva semplicemente dalla scarsità di risorse oppure da una mancata applicazione della legge dell’integrazione, ma nasce dai presupposti teorici dell’integrazione stessa (norma, abilismo, compensazione, specializzazione, adattamento, riferimento alle condizioni deficitarie) e, soprattutto, dalla differenziazione formativa delle competenze e dei ruoli degli insegnanti».  Il riferimento alla differenziazione delle competenze e al ruolo degli insegnanti è già di per sé una critica implicita alla Proposta di Legge 2444, riguardante le norme per migliorare la qualità dell’inclusione, sostenuta da FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità), sulla creazione di appositi ruoli per il sostegno che, con l’approvazione della riforma della Buona Scuola, potrebbe essere introdotta nel nostro sistema.

«A questa prima lettura della delega – proseguono da GRIDS Italy – possiamo aggiungerne una seconda, con il riferimento alla specializzazione e alla cultura relativa alle differenze: da una parte, la specializzazione di un ruolo produce una gerarchia nella quale si attiva la delega alle competenze fra insegnanti, in base al riferimento classe o alunno con disabilità, dall’altra, la suddivisione dei ruoli incrementa l’idea di norma e di deficit, di normale e di anormale e gli stereotipi ad essi collegati. Questa ricaduta non si limita agli insegnanti, ma coinvolge anche le percezioni degli alunni di una classe: la rappresentazione della normalità, infatti, viene confermata dal docente curricolare e dalle routine dell’apprendimento che egli stabilisce (tempi, compiti, interrogazioni, voti), mentre l’insegnante specializzato per il sostegno rappresenta invece la conferma dell’eccezione».

Purtroppo questa lettura è stata data pure da numerose Sentenze del Tribunale Civile di Milano e ora anche dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio di Stato, che ritengono differenti i ruoli dei docenti curricolari assegnati agli alunni non disabili e quelli per il sostegno assegnati agli alunni con disabilità; anzi, la riduzione di ore di sostegno senza una contemporanea riduzione di quelle curricolari comporterebbe discriminazione ai danni degli alunni con disabilità.  «Infine – conclude l’articolo – vi è una terza lettura della delega che riguarda la resistenza della scuola, dei dirigenti e degli insegnanti verso i processi di cambiamento: non si vuole certo misconoscere la grande mole di esperienze e di pratiche integrative e l’investimento operato da moltissime scuole nella direzione della contitolarità, ma è indubbio che la figura del docente specializzato per il sostegno si sia trasformata da strumento nato per favorire il processo di integrazione, in uno strumento di conservazione e immunizzazione della scuola, per impedire, limitare o tenere sotto governo le richieste di cambiamento dell’organizzazione della classe e della didattica. Questi i motivi per cui anche i richiami alla contitolarità sono rimasti inerti».  E questa terza critica affossa definitivamente la motivazione con la quale i docenti per il sostegno sono stati introdotti in Italia.

In sostanza, la soluzione proposta dal gruppo dei ricercatori universitari è l’abolizione della figura dei docenti per il sostegno e la specializzazione per tutti i docenti curricolari. In tal modo non si avrebbe più né la delega, né la gerarchizzazione tra i docenti curricolari, avvertiti come “docenti di serie A” e quelli per il sostegno, avvertiti come “docenti di serie inferiore”. Ora, se le critiche sembrano molto penetranti e assai acute, irrealistica sembra invece la soluzione proposta. Se infatti in Italia, dopo oltre quarant’anni di inserimento prima, integrazione poi e inclusione ora, non si è riusciti a specializzare i circa centomila docenti per il sostegno attualmente operanti, si vorrebbero specializzare tutti i circa settecentomila docenti curricolari? A parte i costi organizzativi ed economici, vien da chiedersi se una tale soluzione risolverebbe gli attuali guasti dell’inclusione italiana.

Anche il professor Dario Ianes da tempo propone come soluzione l’abolizione dei docenti per il sostegno in classe e la loro sostituzione di gruppi di consulenza itineranti per le scuole.
Queste due strategie sono incentrate fondamentalmente sulla figura del docente per il sostegno, sia esso “elitario”, come nell’ipotesi di Ianes, sia esso “generalizzato”, come invece nell’ipotesi dei ricercatori di GRIDS Italy. Manca però, in queste due prospettive, un riferimento realistico alla formazione dei docenti curricolari. Infatti, secondo il GRIDS Italy, essi sarebbero tutti specializzati e ciò non si vede come possa avvenire. Questa era per altro la logica dei docenti delle scuole speciali,  che dovevano essere titolari delle singole discipline curricolari e contemporaneamente specializzati; ma si parlava di piccoli numeried essi si rivolgevano solo ad alunni con disabilità, per giunta con tre specializzazioni monovalenti, per ciechi, per sordi e – con una visione culturale assolutamente generica – per “psicofisici”.

In una logica inclusiva, invece, i docenti curricolari devono occuparsi di alunni, solo alcuni dei quali sono con disabilità, e la loro preparazione non può ricalcare quella dei docenti delle scuole speciali.  La citata Proposta di Legge 2444 avanza delle soluzioni agli attuali guasti dell’inclusione, intervenendo contemporaneamente sulla formazione iniziale e in servizio sia dei docenti curricolari che di quelli per il sostegno. Per i primi si prevede circa un semestre di formazione iniziale sugli aspetti salienti delle didattiche ordinarie e inclusive relative alle singole discipline (attualmente assenti dalla formazione dei docenti, specie di quelli della scuola secondaria); per i secondi, poi, si prevede un triennio di formazione sulla pedagogia ordinaria e speciale e sulle didattiche ordinarie e inclusive delle singole discipline, più un biennio di specializzazione in cui, tra l’altro, si studiano le modalità, ormai sperimentate, di insegnamento agli alunni con differenti tipologie di bisogni educativi speciali derivanti dalle differenti disabilità. Ciò costringerà finalmente i docenti curricolari a farsi carico effettivamente del progetto inclusivo degli alunni con disabilità, non potendo più delegare a docenti curricolari, specializzati, i propri insegnamenti; anzi, i docenti specializzati, lungi dall’essere considerati “docenti di serie B”, saranno indispensabili ai colleghi curricolari, per saper dialogare con qualunque alunno con disabilità, realizzando un compito di intermediazione didattica che favorisca anche il dialogo educativo tra compagni. A ciò si aggiunga l’aggiornamento obbligatorio in servizio che, annualmente, dovrà coinvolgere tutti i docenti nel saper leggere la diagnosi funzionale degli alunni con disabilità, nel saper formulare e realizzare il PEI (Piano Educativo Individualizzato), coinvolgendo anche i compagni. Ovviamente ciò necessita del rispetto della normativa (articoli 4 e 5 comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica­DPR 81/09), circa il tetto massimo di venti alunni per classe. Con questa soluzione, pur rimanendo i tre rischi denunciati dai ricercatori di GRIDS Italy, riteniamo che essi si ridurranno enormemente e soprattutto che la delega scomparirà totalmente.
Siamo realisti? Non certo meno degli stessi ricercatori di GRIDS Italy.

LA RISPOSTA DI LUCIANO PASCHETTA

( Referente nazionale per l’Istruzione della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità). Direttore centrale dell’IRIFOR (Istituto di Ricerca, Formazione e Riabilitazione, Ente dell’UICI­Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).

Ho letto con estremo interesse l’articolo pubblicato da «Superando.it», dal titolo Nella scuola servirebbe un po’ di coraggio, ad opera del Gruppo GRIDS Italy (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies), dove, tra l’altro, si legge che alcune parti della Proposta di Legge 2444, riguardante le norme per migliorare la qualità dell’inclusione, sostenuta da FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità) e FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), sono «condivisibili, ma rimanere nella dimensione da essa delineata, senza collegarla a una visione inclusiva della scuola e dei suoi contesti, implica il rischio di “fare sempre meglio le stesse cose”: serve, invece, un po’ di coraggio, per pensarle e farle diversamente, con tutti i rischi che ciò comporta» (quasi che questo coraggio e questa consapevolezza mancassero alle Federazioni FISH e FAND). Vi viene poi offerta, come “soluzione coraggiosa”, coerente con la visione inclusiva della scuola e del contesto, la specializzazione di tutti i docenti, fino a far venir meno l’utilità della figura del docente di sostegno.  Quest’ultima è certamente una soluzione ottimale, auspicabile e pienamente condivisibile come obiettivo finale di un processo. Una proposta, però, per essere coraggiosa, dev’essereanche realizzabile ed è difficile credere che un sistema scolastico e formativo che in quarant’anni di integrazione non è neanche riuscito a formare e specializzare in modo efficace i docenti per il sostegno, abbia risorse umane e materiali, strutture e capacità politica, per attuare una simile proposta in tempi ragionevoli. Infatti, pur ammettendo anche un immediato “cambio di passo”, quanti anni occorrerebbero al sistema perché riuscisse a specializzare i suoi 700.000 docenti, rendendo così la scuola inclusiva?

La Proposta di Legge sostenuta da FAND e FISH, pur avendo lo stesso obiettivo di rendere, nel tempo, il sistema scolastico “specializzato e inclusivo”, muove dall’analisi dei punti di forza e di quelli di debolezza dell’attuale modello di inclusione e dalla presa d’atto dell’urgenza di un intervento sostenibile, che possa produrre effetti immediati e che al contempo sia in grado di portare a un’evoluzione progressiva verso l’obiettivo principale. Purtroppo dobbiamo osservare che in questi quarant’anni anni di integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole di tutti, l’inclusività degli istituti scolastici e del contesto sociale, anziché migliorare, come sarebbe stato auspicabile, è andata diminuendo, come emerge da alcune ricerche e come dimostrano le persistenti molteplici segnalazioni di”disagio” e difficoltà che quotidianamente riceviamo dalle famiglie – ma anche dalle scuole – in relazione a “difficili situazioni” di inserimento. Fermo restando che il nostro modello che prevede l’inclusione degli alunni con disabilità nelle classi comuni è un punto di forza che tutti cercano di imitare, muovendo dalle situazioni reali abbiamo
individuato proposte concrete e attuabili. E questo non per continuare a «fare sempre meglio le stesse cose», ma, una volta individuati i punti di debolezza della prassi, abbiamo voluto proporre una ridefinizione dei ruoli (dei docenti per il sostegno, di quelli curriculari, degli assistenti alla comunicazione e alla persona), tale da produrre progressivamente una sempre maggiore specializzazione del sistema, mantenendo, questo sì, il punto di forza cardine del modello, ma aumentandone le capacità di inclusione.

Interventi quali l’obbligo di formazione iniziale e permanente di tutti i docenti, la maggior formazione specializzata per il sostegno, la richiesta della definizione dei profili professionali e dei percorsi formativi per gli assistenti alla comunicazione e alla persona, ma anche la richiesta della certificazione ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e la riorganizzazione e il potenziamento dei CTS [Centri Territoriali di Supporto, N.d.R.], contenuti nella Proposta di Legge da noi sostenuta, discendono tutti dalla consapevolezza di incrementare l’inclusività della scuola e dei suoi contesti.  I “punti di debolezza” nel processo di integrazione, rilevati più frequentemente come probabili cause dell’“arretramento” della capacità inclusiva del nostro sistema scolastico, sono i seguenti:
– la dipendenza, per gli aspetti specifici della disabilità, dai medici o dai riabilitatori: quando non si sa cosa fare, ci si rivolge all’esperto esterno, quasi sempre un sanitario;

– la frequente definizione delle ore di sostegno sulla base della semplice diagnosi di disabilità;
– la scarsa consapevolezza dei Dirigenti Scolastici e dei Circoli Didattici delle modalità e delle opportunità offerte dalla normativa per l’inclusione. Quasi per niente utilizzate, ad esempio, sono la flessibilità del curriculum e l’alternanza scuola lavoro nella secondaria;
– la sostanziale “separatezza” dell’azione didattica rivolta agli alunni con disabilità, rispetto a quella generale: spesso nei POF (Piani dell’Offerta Formativa) o non si parla dei disabili o si dedica loro un paragrafo a parte;
– la “rinuncia alla funzione docente” per “supposta incapacità” da parte dei docenti titolari e la conseguente delega degli apprendimenti dell’alunno con disabilità al docente di sostegno, un fenomeno, questo, sempre più presente, via via che si passa dalla scuola primaria alla secondaria di primo e di secondo grado. Ciò fa sì che al docente di sostegno vengano, di fatto, completamente delegati l’insegnamento e la valutazione disciplinare;

– la genericità dei PEI (Piani Educativi Individualizzati), nei quali mancano obiettivi espliciti, definiti nel tempo e misurabili. Troppo spesso, infatti, essi contengono solo indicazioni generiche che non individuano l’acquisizione di competenze verificabili;
– l’insufficiente conoscenza da parte dei docenti di sostegno delle didattiche e degli strumenti specifici alle varie tipologie di disabilità (la non conoscenza del Braille o della Lingua Italiana dei Segni­LIS, le modalità di relazionarsi con un allievo autistico ecc.);

– la difficoltà nell’individuare le strategie didattiche per l’insegnamento delle varie discipline in presenza di particolari disabilità: ciò porta spesso ad esoneri disciplinari del tutto immotivati;
– la modesta conoscenza degli strumenti e dei sussidi didattici specifici e delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, quali ad esempio le periferiche assistive per consentire l’uso dei computer ai ciechi, agli alunni spastici ecc.;

– l’insufficiente conoscenza delle potenzialità di apprendimento dell’alunno con disabilità: quasi mai, infatti, si è in grado di individuare obiettivi di periodo definiti, ma ci si accontenta di quello che il disabile riesce a fare, a prescindere da quello che potrebbe fare;
– l’assenza di un vero e proprio orientamento scolastico nel corso della scuola secondaria di primo grado e professionale nella secondaria di secondo grado.

Certamente, per eliminare tutte queste carenze, oltre a una maggiore specializzazione delle diverse figure, serve migliorare la “rete” di supporto esterna (Centri Territoriali di Supporto; Sportelli di Consulenza Didattica gestiti da Associazioni; Centri Specializzati come gli ex Istituti per Ciechi e per Sordi ecc.), oltreché individuare gli standard minimi del servizio e i relativi indicatori di qualità, ma per promuovere l’inclusività del contesto, è indispensabile che all’interno della scuola vi sia una “figura strumentale” che abbia piena consapevolezza del processo di inclusione, che possieda le competenze necessarie, che abbia un ruolo definito e riconosciuto e che faccia da “propulsore” del processo di inclusione stesso.  Molte delle criticità sopra indicate dipendono dall’ambiguità del ruolo e dei compitidell’attuale figura di sostegno, dovuta sì alla sua insufficiente specializzazione, ma soprattutto alla sua bassa “caratterizzazione”: un esperto della didattica disciplinare o un docente di supporto all’insegnante della disciplina per l’attuazione di una didattica inclusiva? Un docente assegnato all’alunno per l’insegnamento individuale o a disposizione della scuola per supportare i colleghi nell’azione didattica data verso l’alunno con disabilità?
L’inadeguatezza del ruolo derivante da questa ambiguità funzionale e gli effetti che ne conseguono emergono chiaramente, a partire dalla scuola secondaria, quando, dovendo supportare il docente titolare nello sviluppare la progettazione didattica inclusiva della disciplina – che però spesso non è la sua – l’insegnante di sostegno non possiede né le necessarie competenze disciplinari, né la specializzazione specifica, utile a fornirgli la consulenza metodologico­didattica richiesta. Il docente titolare, a questo punto, si dichiara “non capace” e delega l’insegnamento nei confronti dell’alunno con disabilità al collega di sostegno; quest’ultimo, a sua volta, poco o per nulla preparato nella disciplina, si riduce a impartire un insegnamento “minimale”, quando non alla semplice “badanza”.
Allo stesso modo, essendo il ruolo del sostegno vissuto comunque dai colleghi come quello di un docente assegnato all’alunno, egli – quand’anche ne abbia le competenze necessarie – non vienequasi mai coinvolto nell’elaborazione del POF (Piano dell’Offerta Formativa), né nelle riunioni di programmazione dei Dipartimenti Disciplinari e dei Consigli di Classe, per la definizione degli obiettivi minimi, ma rimane isolato con il “suo alunno”, senza poter incidere minimamente sull’inclusività del contesto, tanto che anche il PEI (Piano Educativo Individualizzato), al di là della norma, in tantissimi casi è affidato alla sua solitaria redazione.

Da queste considerazioni sugli effetti, dovuti non solo all’insufficiente competenza, ma anche e soprattutto all’ambiguità dei compiti e del ruolo della figura di sostegno, e dalla necessità di una sua maggior preparazione, oltreché dal bisogno che all’interno della scuola vi sia chi, possedendone le competenze, possa fare da mediatore nell’azione didattica tra i colleghi (Collegio, Consiglio di Classe o di Interclasse, Dipartimento Disciplinare) e l’alunno con disabilità, senza che possa però essere chiamato a sostituire le funzioni del docente titolare, perché egli dichiaratamente non ne avrebbe le competenze, nasce la nostra proposta della costituzione del ruolo dell’insegnante specializzato per il sostegno, ossia di un docente esperto di pedagogia e didattica speciale, sistemi e metodologie educativi e strumenti didattici inclusivi e specifici, capace di supportare l’istituzione scolastica, alla quale sarà assegnato nella progettazione inclusiva a tutti i livelli, disseminando appunto la “cultura dell’inclusione”.  Questa figura strumentale, quindi, il cui ruolo sia chiaramente quello di contribuire all’inclusività del contesto, rendendosi capace di supportare i colleghi e i vari Organi Collegiali nel progettare e attuare un’azione didattica per tutti e per ciascuno, insieme a una formazione iniziale e in servizio dei docenti sulle tematiche della disabilità, attiveranno, a mio parere, la progressiva specializzazione del sistema. Specializzazione che ridurrà via via la necessità della presenza del sostegno. Affermare in conclusione che una simile proposta sia il semplice «far meglio sempre le stesse cose» e che stia al di fuori di una visione inclusiva della scuola e del contesto, ci paredifficile da sostenere. In essa certamente non c’è la temerarietà di un’utopistica fuga in avanti, ma il coraggio di concretizzare una proposta che – partendo dalle debolezze dell’attuale processo di inclusione e tenuto conto delle risorse disponibili – garantisca, a partire da subito, un sostenibile e progressivo miglioramento delle capacità di inclusione delle nostre scuole, secondo l’ottica di un sostegno evolutivo e di prossimità.

LA RISPOSTA DEL GRUPPO GRIDS

Gli interventi dell’amico Nocera e del sign. Luciano Paschetta, che ringraziamo per le sollecitazioni proposte, ci invitano a riflettere sull’ ”impossibilità” di una formazione finalizzata al superamento della differenziazione dei ruoli fra docente curricolare e docente specializzato per il sostegno. Questo è il tema centrale ed unico dei due interventi, che, però, evitano di affrontare tre nodi fondamentali che stanno alla base della nostra argomentazione: l’integrazione come base teorica della Proposta di Legge 2444, la conseguente impostazione della formazione, l’assenza di un disegno di scuola inclusivo per tutti che non si limiti alla tutela. Per questo motivo, prima affronteremo i tre nodi ora evidenziati per poi concludere col tema della fattibilità.

Il nodo integrazione/inclusione

La prospettiva integrativa.Leggendo i contributi succitati ed strappando per semplicitàdi analisi alcuni passaggi, sembrerebbescontato l’avvenutosuperamento della prospettiva integrativa e la conseguente affermazione dell’inclusione: “[…]Se infatti in Italia, dopo oltre quarant’anni di inserimento prima, integrazione poi e inclusione ora […]”, “l’inclusivitàdegli istituti scolastici e del contesto sociale, anzichémigliorare, come sarebbe stato auspicabile, èandata diminuendo[…]”. Sequesto passaggio storico, culturale ed epistemologico si fosse davvero verificato, dovremmo necessariamente ritrovare nei contributi di Nocera e Paschetta la critica e la richiesta di superare le categorie di abilismo (riferimento alla norma, dicotomia deficit/abilitàe differenza intesa come deficit) e dispecialismo (diagnosi medica, certificazione, insegnante specializzato per il sostegno) che sono alla radice dell’integrazione. Purtroppo, nei due contributi, non c’ènulla di tutto ciò; anzi, si conferma la centralitàdel deficit individuale e della sua gestione che si evidenzia nella richiesta di specializzazione. Risulta evidente la presenza di un implicito fortemente integrativo sulquale viene adagiatoun lessico inclusivo che, però,per essere tale, richiederebbe un cambiamento di pensiero e prospettivaattualmente non presenti. Ne èun esempio la contraddizione fra le critiche riguardanti“…la dipendenza, per gli aspetti specifici della disabilità, dai medici o dai riabilitatori…la frequente definizione delle ore di sostegno sulla base della semplice diagnosi di disabilità…l’insufficiente conoscenza delle potenzialitàdi apprendimento dell’alunno con disabilità…l’assenza di un vero e proprio orientamento scolastico…”e il mantenimento delle categorie integrative (abilismo, norma, compensazione, specializzazione) che generano l’oggetto delle critiche. Da qui, a nostro avviso, si può comprendere la difficoltà dei contributi ad identificare le cause della crisi teorica ed operativa dell’integrazione e ad analizzare il peso che hanno avuto le politiche e i tavoli di discussione sui problemi che stiamo discutendo. Da questa difficoltà si genera la convinzione, non argomentata, che l’unica possibilità stia nella specializzazione e nella differenziazione dei ruoli fra gli insegnanti.

E la prospettiva inclusiva?  A differenza dell’integrazione, l’inclusione,supera l’ottica normativa  e il conseguente dispositivo del deficit che orienta un’idea dominante di disabilitàprigioniera dello stesso. Per l’inclusione, la centralitànon sta nel deficit, ma nell’idea di differenzeintesa come modalitàoriginali e personali di proporsi nelle relazioni, nel sociale, nell’apprendimento e nel vivere la vita.  La differenza diventa, così, uno spartiacque concettuale e culturale fra l’inclusione e la prospettiva integrativa dei Bisogni Educativi Speciali tanto che, in tale ambito, risulta contraddittorio l’utilizzo del termine «inclusione». L’inclusione, inoltre, anzichéessere un tema specifico relativo a come alcuni studenti possano essere integrati e integrarsi nella scuola ordinaria, diventa uno sfondo teorico, culturale ed operativo per modificarei presupposti dell’organizzazionee far diventare la scuola un’istituzione in grado di accogliere e offrirealle differenze di tutti gli alunni e di tutti gli studenti, analizzandole barriere alla partecipazione e all’apprendimento che essa stessa puòprodurre.

L’intreccio fra l’idea di differenze sopra proposto e il possibile ruolo causale dei contesti nella disabilitazione, nellesclusione, nellinsuccesso e nellabbandono scolastico mette in discussione il concetto di «specializzazione»nella sua caratterizzazione deficitaria ed individuale come èstato sottolineato nel nostro precedente intervento: per sottolineare la differenza, èquindi meglio assumere la prospettiva della «competenza»che, assieme alla conoscenza degli ostacoli prodotti da un deficit, da una difficoltà o da un disturbo, si orienta ai diversi aspetti del vivere a scuola (organizzazione, discipline, didattiche, relazioni, modi di apprendere e di proporsi) e che si declina nella costruzione di possibilitàper ciascun alunno e studente.  In questa dimensione, le specificitàdi ogni differenza si ampliano e si rendono visibili non in virtùdella distanza dalla normache le occulta attraverso la categorizzazione, madei modi personalidi proporsi e di affermarsi e degli interventi finalizzati al superamento delle barriere alla partecipazione e all’apprendimento. Con le argomentazioni proposte, basate su una prospettiva con radici teoriche delineate,non appare quindi, “difficile da sostenere”che la proposta di legge in discussione “stia al di fuori di una visione inclusiva della scuola e del contesto.

La formazione

Arriviamo all’esito della formazione dove i contributi di Nocera e di Paschetta alzano il tono della critica, azzardando similarità fra la proposta GRIDS e dei docenti delle scuola speciali. Vista la differenza temporale, culturale e teorica lasciamo da parte l’azzardo di tale similarità avanzata da Nocera per entrare nel merito delle obiezioni che concernono la centralità dell’insegnante specializzato per il sostegno.  “Queste due strategie sono incentrate fondamentalmente sulla figura del docente per il sostegno, sia esso “elitario”, come nell’ipotesi di Ianes, sia esso “generalizzato”, come invece nell’ipotesi dei ricercatori di GRIDS Italy. Manca però, in queste due prospettive, un riferimento realistico alla formazione dei docenti curricolari…”. A differenza di Ianes, con ilquale condividiamo la necessitàdi porre il problema, la centralitàdella propostadelGRIDS ha a che fare con un cambiamento che riguarda tutti i docenti attraverso la formazione di competenze che siano guidate da un concetto di differenza liberato dai dispositivi normativi e dal deficit. Posto questo presupposto che, con una certa evidenza,si differenzia da quello che ispira la Proposta di Legge 2444 e che supera le categorie bio-mediche individuali, diventa naturale proporre una formazione per tutti i docenti e il superamento della differenza fra i ruoli.Quest’ultimo aspetto non può certo essere condiviso dalle altre posizioni, non tanto per una supposta impossibilità d’azione della proposta inclusiva come da noi declinata, ma perché diversi, se non opposti, sono i presupposti teorici dei due contributi che si ispirano alla prospettiva integrativa.

Proviamo, ora, a ragionare sui due ambiti della formazione in stretta relazione fra loro che, vista la situazione odierna, è utile trattarli nello specifico: quello in servizio, meglio formazione continua, e la formazione iniziale. La formazione definita in servizioè impossibile per tutti? Nocera e Paschetta si limitano all’affermazione dell’impossibilità senza però argomentarla se non attraverso un veloce riferimento al numero di docenti, ai tempi, e alle risorse. Ma come? Mai come oggi si fa riferimento alla formazione obbligatoria come prevede la legge sulla Buona Scuola e la stessa Proposta 2444 (art.5) indica che tutti i docenti assegnati ad una classe nella quale è presente un alunno con disabilità o con altri bisogni educativi speciali sono tenuti annualmente … a partecipare ad almeno un corso di formazione sugli aspetti della didattica dell’inclusione scolastica…”. Quest’ultima posizione sollecita con forza un ulteriore: “Ma come?”. Ciò che vale per la formazione sulla didattica per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e altri BES non può valere per una didattica inclusiva per tutti e quindi per tutti i docenti? In questa dimensione è evidente una forte contraddizioneche scambia la didattica inclusiva con una didattica speciale, confermando ancora una volta la prospettiva integrativacon tutti i suoi presupposti.

La proposta del GRIDS propone di uscire da questa prospettiva basata sulla formazione tematica settoriale (es. I bisogni Educativi Speciali) per orientarsi verso il processo di insegnamento-apprendimento con riferimento al concetto di differenze sopra esposto e per declinarla nell’ambito della cultura e della  didattica inclusiva della scuola e della classe nel suo intreccio fra i processi di apprendimento e di insegnamento e la caratterizzazione disciplinare, le modalità specifiche di apprendimento, l’organizzazione dei tempi e della classe, il clima relazionale, l’utilizzo di strumenti multimediali e tecnologici nonché di strumenti specifici per alcune tipologie di disabilità (vocal, Braille, Lingua Italiana dei Segni-LIS…). Per avere respiro, questa prospettiva assume la progettazione come processo guida orientato all’inclusione nella scuola e nella classe per tutti: solo in questa prospettiva si potrà dare un significato davvero inclusivo al POF e non burocratico a diversi strumenti quali, ad esempio, PEI, PDP, anche attraverso la loro modifica o integrazione nella prospettiva della progettazione. Ciò non può certo limitarsi al micro contesto della scuola e della classe: sarebbe, infatti riduttivo, se non coinvolgesse, ai diversi livelli, anche alunni, genitori e territorio.

In riferimento alla formazione iniziale, acquista rilevanza un principio generale ricavato dalle riflessioni di Morin (2001, p.16) alla cui base si trova la critica  alla chiusura delle discipline in se stesse, al loro isolamento e all’assenza di qualsiasi forma di comunicazione fra di esse: “Ci occorre… un paradigma che possa permettere di distinguere, separare, opporre e quindi disgiungere in modo relativo questi domini scientifici, ma che possa anche farli comunicare senza operare una riduzione”. La contestualizzazione nel nostro discorso evidenzia un chiaro richiamo alla necessaria relazione fra la struttura e i contenuti della disciplina, i processi di apprendimento e insegnamento, le modalità specifiche dell’apprendere e le metodologie della didattica inclusiva. Si tratta di pensare un curriculo formativo universitario che costruisca connessioni fra discipline, processi e metodologie pensate per co-docenze che permettano di evidenziare, comprendere e promuovere azioni di insegnamento in grado di accettare e mettersi in gioco di fronte alla complessitàche sta alla base dell’interazione fra conoscenze, insegnamento, apprendimento, emozioni (anche degli insegnanti) e le conseguenti relazioni.

Questi sono, dal nostro punto di vista,i presupposti per la formazione di tutti i docenti mentrenella Proposta di Legge 2444 tutto èdisgiunto in una formazione che gioca la specializzazione con modalitàdi insegnamento solo in relazione al deficit, senza interazioni fra discipline e con CFU (Crediti Formativi Universitari) ridotti dove, come nel caso della formazione secondaria, devono trovare posto Neuropsichiatria Infantile, Psicopatologia, Psicologia dello Sviluppo e Didattiche Inclusive. Da qui la sicurezza che la scuola puòcambiare?

In questo breve contributo, abbiamo cercato di proporre prospettive e risposte sulle quali confrontarsi, senza separare i problemi scolastici dialunni e studenti senza disabilitàda quelli con disabilità: un approccio sistemico che, pur nella specificitàdei casi, intende leggere i problemi di tutti gli alunni e studenti (con disabilità, a rischio diabbandono scolastico, con altri bisogni educativi speciali, con difficoltà, con potenzialitàpiùmeno alte) alla luce della cultura scolastica, delle pratiche di insegnamento che si fondano sull’omogeneitàformativa e di una valutazione che tende sempre di piùal controllo piuttosto che alla formazione.   Il superamento dei presupposti integrativi e di una formazione settoriale, costruiti negli anni dalle culture scolastiche e dalle politiche, rimane la condizione necessaria per una scuola inclusiva che accetti di mettersi in gioco di fronte alla sfida della complessità presente nell’attuale processo formativo e di insegnamento rivolto alle differenze. E, questa, è la reale tutela che possiamo offrire a tutti gli alunni, studenti e famiglie; una tutela che si articola più sul versante pedagogico inclusivo con orientamenti legislativi che superino l’abilismo e la teoria del deficit-individuale che su quello giuridico integrativo legato ai livelli abilità e di gravità. Cosa, quest’ultima, che rischia di rimanere vincolata essenzialmente allo strumento dei ricorsi e delle sentenze ed esposto ai rischi di differenze nei processi di tutela.

Il problema della formazione non sta, quindi, nella fattibilità, nel realismo o nella temerarietà, ma nella differenza fra il paradigma inclusivo e integrativo, in una conseguente lettura diversa delle differenze alle quali appartiene anche la disabilità e, non secondariamente, in una visione di scuola che nella prospettiva qui presentata, dà credito alle sue potenzialità per un possibile cambiamento. 



Le modifiche al Decreto 2017/66 sull’inclusione scolastica 

Intervento pubblicato sulla testata giornalistica Superando on line 2019

A.D. Marra, R. Medeghini, S. D’Alessio, V. Migliorini, F. Bocci, G. Vadalà, E. Valtellina

Il dibattito in relazione alle modifiche del Decreto sull’inclusione scolastica è interessante ed evidenza aspetti positivi e negativi da diversi punti di vista. Indubbiamente ci sono passaggi condivisibili come il tentativo di coinvolgere le famiglie, gli studenti con disabilità. Allo stesso tempo, però, si aprono contraddizioni e passaggi critici come è stato evidenziato da diversi interventi, ma soprattutto da quello di Flavio Fogarolo e Giancarlo Onger perché, assieme alle riflessioni come l’istruzione domiciliare, ha evidenziato l’assenza dei principi inclusivi.

1. L’inclusione.

L’articolo 1 dei “Principi e finalità inclusive” viene contraddetto dall’articolo 2 asserendo che l’intervento è esclusivamente a chi è certificato come persona con disabilità. Questa categorizzazione crea una differenza in negativo, cioè, un gruppo altro. Ne consegue che il principio dell’includere assume la forma di un’azione esterna (certificazione) con categorie fissate che neutralizzano il senso inclusivo. In questa dimensione si producono differenzesulla diversità in negativo inglobando tutti in uno spazio anonimo e collettivo dove l’individualità viene annullata. “… Si è riconosciuti come soggetto non a causa di ciò che siè o di quello che si hapositivamente, ma in ragione di, o inseguito a, ciò di cui si è privati o separati, esclusi, rifiutati” (Macherey, 2017, p.210). L’inclusione non richiede le categorie del deficit come proprietà interna alla persona, bensì l’idea che le differenze hanno una loro visione del mondo, modalità e strategie originali e differenti per viverci. In sintesi, non viene posto il tema delle differenze imbrigliate nella classica interpretazione e rappresentazione di distanza dalla norma o di identità, ma come condizione essenziale per dare un significato alle relazioni.

Inoltre, il superamento della locuzione “disabilità certificata” è stata una scelta corretta, ma con “accertata la condizione di disabilità al fine dell’inclusione scolastica” ha aggiunto due problemi: il primo conferma sia la categorizzazione che la certificazione sopra spiegata e il secondo mette in discussione il concetto dell’inclusione per tutti. Ne deriva che le alunne, gli alunni, studentesse e studenti con disabilità non sono inclusi in “tutti”, ma sono solo una partizione del “tutti” fra deficitario e non deficitario. Tale prospettiva che ondeggia fra inserimento e integrazione suppone, quindi, che nella maggior parte esista una categoria di alunne, alunni, studentesse e studenti già inclusa in quanto non deficitaria. Ma l’inclusione non è questa: essa è per tutti; “Eccellenze”, “Bisogni educativi Speciali”, l’abbandono scolastico, la “normalità”, la “fatica di apprendere, l’eccellenza…tutti”!

Un ultimo sguardo agli strumenti PEI, Piano per l’Inclusione, Progetto individuale, la collaborazione tra più soggetti (che riprende il piano di zona previsto dalla 328 del 2000), perchè mancano indicazioni chiare su come questi strumenti possano effettivamente fare emergere le barriere al processo inclusivo. Infatti, il profilo di funzionamento come punto di partenza per l’elaborazione del PEI deve contenere indicazioni per poter identificare e rimuovere le barriere alla partecipazione. 

2. Cosa manca

Come è possibile decretare norme per la promozione dell’inclusione scolastica se si mantiene il silenzio sulle scuole speciali e sulle classi potenziate la cui presenza è stata evidenziata da Giovanni Merlo nel suo testo del 2015 con attenzione alle famiglie?

Il Decreto sottolinea spesso la centralità della famiglia e dell’impatto problematico della disabilità, ma la condizione di solitudine delle alunne, alunni, studentesse e studenti rispetto al sociale, la percezione dell’abbandono, l’autoreferenzialità dell’istituzione scolastica sin dalla prima infanzia, e la sua difficoltà nella gestione degli alunni con disabilità più o meno complesse, l’assenza di reti sociali costringono le famiglie alla ricerca di una tutela attraverso strutture dedicate. Questo elenco, non esaustivo, ci permette di comprendere le cause della sopravvivenza delle strutture non integrative e non inclusive.  Questo silenzio incontra anche l’articolo 4 (valutazione della qualità dell’inclusione scolastica), strumento utile per coinvolgere le famiglie, la scuola, il territorio, le alunne, alunni, studentesse e studenti. Invece lo troviamo inerte, delegato all’INVALSI, debole e generico nei criteri. Come, allora, si possono individuare e superare gli ostacoli alla partecipazione di tutti nell’apprendimento e nelle relazioni sociali scolastiche ed extrascuola? Quali criteri si indicano? Quali pratiche si possono applicare, a partire dalla scuola d’infanzia? Interrogativi centrali perché la scelta dei criteri e degli indicatori e delle pratiche non è un’operazione neutra, ma ispirata da visioni dell’educazione, del percorso formativo e delle differenze: ed è su questo terreno che si possono mettere a confronto le diverse prospettive e le diverse modalità di analisi, riconducendole alle matrici teoriche che ne ispirano l’utilizzo.

Un’altra assenza la ritroviamo nell’articolo 5/b che fa riferimento al “… profilo di funzionamento secondo i criteri del modello bio-psico-sociale …”(ICF): uno strumento, questo, la cui osservazione deve fare riferimento al sociale.  Ma dove troviamo il rapporto tra scuola e il sociale del territorio in termini concreti? Ci sono riferimenti di tipo burocratico, deleghe e relazione fra servizi e scuola (naturalmente utili), ma più in una prospettiva assistenziale, senza criteri che portano ad un progetto sociale attraverso il quale si costruiscono e potenziano relazioni amicali e di collaborazione nei contesti scolastici ed extrascolastici. Alcuni penseranno che stiamo parlando di extra-scuola e che usciamo dal tema, ma se si parla di inclusione non dobbiamo ragionare nell’approccio individuale bensì nel sistemico, nei legami, nelle reti e nella responsabilità.

3. Spunti sull’Accomodamento ragionevole

Il concetto di Accomodamento ragionevole è richiamato dal nuovo testo ma è utilizzato in modo fuorviante: il richiamo operato sembra frutto più di una esigenza di “allineamento linguistico”  che di una reale comprensione di cosa sia e come funzioni lo strumento cirato. Si tenga presente che l’accomodamento ragionevole è definito all’interno della Convenzione sui diritti delle Persone con disabilità del 2006 come segue:

«Accomodamento [o soluzione] ragionevole indica le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali» art. 2, Convenzione di New York).

In breve, l’accomodamento ragionevole ha una serie di caratteristiche: primo, si tratta di una soluzione estremamente individualizzata; secondo l’accomodamento viene individuato instaurando un dialogo fra il soggetto tenuto a predisporre la modifica e la persona con disabilità interessata. Non si tratta, perciò, di una soluzione standard valida per un insieme indeterminato ed ampio di individui. Inoltre, perché possa instaurarsi un dialogo efficace, è necessario che vi sia un luogo istituzionale o meglio uno spazio entro cui attivare il confronto tra i soggetti coinvolti. Da un punto di vista strettamente giuridico è necessario individuare una procedura attraverso cui, per poter essere ottenuto, l’accomodamento ragionevole venga richiesto.

Ancor prima di ciò, è fondamentale individuare quale sia il soggetto tenuto alla predisposizione dell’adattamento.L’Accomodamento deve inoltre avere il carattere della necessità che è distinto da quello della appropriatezza. Necessario è ciò che rende possibile l’esercizio del diritto o della libertà altrimenti preclusi; appropriato significa parametrato sulle esigenze specifiche della persona considerata. Dunque la valutazione è compita rispetto ai bisogni da soddisfare, non in base al maggiore o minore impatto sulle risorse.Nell’esperienza nazionale l'”accomodamento ragionevole” è stato più volte richiamato in giurisprudenza per esempio al fine di giustificare l’attribuzione di un certo numero di ore di sostegno ad un alunno con disabilità per garantirgli in concreto il diritto allo studio (Trib. Milano 10.1.2011; Trib. Milano 19.3.2011; Trib. La Spezia 28.3.2011; Trib Messina 29.12.2011).In sostanza, si è utilizzata una nuova definizione per qualcosa che era già previsto dalla legislazione italiana, (nell’esempio concreto, un numero adeguato di ore di sostegno). In questo modo è mancato completamente il dialogo preventivo, che la Convenzione implicitamente richiede, teso ad individuare la migliore soluzione al caso concreto.

Punti problematici dell’accomodamento ragionevole sono:

(i) nei testi normativi non è presente alcuna articolazione espressa di ciò che debba essere considerato accomodamento ragionevole;

(ii) per sua natura, l’accomodamento ragionevole non è esteso a tutte le persone con disabilità trattandosi di un rimedio singolare e personalizzato;

Ma, soprattutto:

(iii) non è un istituto ben compreso da soggetti tenuti a porre in essere gli adattamenti, né dalle persone con disabilità potenzialmente interessate alla creazione di meccanismi di adeguamento ad esigenze specifiche, né dagli operatori legali che dovrebbero o potrebbero sfruttare appieno le potenzialità. La mancanza di conoscenza è tale che, nell’uso dei giudici italiani, l’accomodamento ragionevole è anche diventato una “categoria logica” dell’argomentare giuridico e non – come invece è – una concreta modifica di un servizio (nel caso della scuola):

«la Corte [costituzionale] ha (…) chiarito che il sistema normativo (a seguito dell’introduzione della l. n. 67/2006) è caratterizzato dalla concreta valutazione di tutti gli interessi, sia di quelli dei portatori di handicap, che di soggetti terzi, e che il bilanciamento tra tali contrapposti interessi, tutti di pari rango, deve essere realizzato in sede contenziosa dall’autorità giurisdizionale mediante un “ragionevole accomodamento” che non imponga un onere sproporzionato ed eccessivo» (Trib. Reggio Emilia, ord., 7 ottobre 2011).

Questa decisione rivela come il giudice abbia (mal) compreso l’istituto leggendolo attraverso i canoni della tradizionale ragionevolezza di stampo costituzionale, interpretando il nuovo strumento a disposizione come un richiamo al bilanciamento di interessi contrapposti. Ciò che l’accomodamento ragionevole cui si riferisce la Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 non è. Infatti, con il termine accomodamento – adjustmentin lingua inglese – si indicano vere e proprie modifiche o, comunque, adattamenti di beni (quindi oggetti fisici) o servizi (potrebbe trattarsi di procedure che rendono accessibile ad un determinato soggetto qualcosa che altrimenti sarebbe a questi precluso); perciò, non si tratta di ponderare interessi ma di modificare l’ambiente (materiale o immateriale, quindi istituzionale) che allo stato considerato porta all’esclusione del soggetto con disabilità. In breve, l’accomodamento ragionevole non è la soluzione per l’inclusione dei disabili come gruppo omogeneo che invece è garantita dalla progettazione universale e dal rispetto del principio del mainstreaming. Il reasonable adjustmentè la soluzione, a ben guardare più di fatto che di diritto, che consente di garantire l’inclusione ad una specifica persona disabile in una situazione determinata.