Contributi scuola

In questa sezione vengono presentati gli interventi del Convegno Internazionale “Disability Studies & Inclusive Education” svoltosi presso l’Università degli Studi Roma Tre tra il 30 e il 31 maggio 2017. Gli interventi di Beth A. Ferri e di Dan Goodley sono inseriti in Dis/Ability Critical Race ( Dis/Crit) e in Critical Disability Studies, Introduzione, Goodley.

Il convegno è stato organizzato dai componenti del GRIDS (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies) appartenenti al Laboratorio di Ricerca per lo Sviluppo dell’Inclusione Scolastica e Sociale del Dipartimento di Scienze della Formazione.

L’autismo e la traccia

Enrico Valtellina

Discorsi e culture della disabilità nei territori e nella scuola

Giuseppe Vadalà

https://youtu.be/tUUAdgu4HbY




Integrazione scolastica and the Educational Micro Exclusion of students from migrant background

and

discussion

Valentina Migliarini


https://youtu.be/s4SSKswnP4E




Disability Studies in Italy

Simona D’Alessio

https://youtu.be/c8FCAv491ks




Esempi di riconfigurazione delle personali linee di ricerca nella prospettiva dei Disability Studies

Fabio Bocci 

https://youtu.be/kLzZre2p5xE




I Disability Studies e Disability Studies Italy

Roberto Medeghini

https://youtu.be/jzXj5yK28Tc



Perché le scuole speciali e scuole potenziate rimangono?

Le pratiche immunizzanti della scuola che generano e favoriscono lo speciale e l’escludibile

Intervista scritta: Pubblicata in Appunti sulle politiche sociali, m. 1/2019

www.grusol.it

Roberto Medeghini

Gruppo GRIDS (Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies), Laboratorio di Ricerca Inclusione Scolastica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma  3

robmedeghini@gmail.com

DOMANDA 1

Nel numero 4/2018 della rivista Appunti sulle politiche sociali, abbiamo dedicato un dossier al tema dell’inclusione scolastica: una riflessione a più voci, in cui emergono le criticità attuali del sistema scolastico e dell’impianto organizzativo della scuola inclusiva, accanto alle necessarie condizioni per attuarla e che rendono ricca la scuola inclusiva, di ordine pedagogico-didattico, di natura etica e politica, di uguaglianza all’eccesso dei diritti, di natura educativa e di qualità della vita delle persone con disabilità. La vicenda “scoppiata” a Falconara Marittima (AN) lo scorso mese di settembre, a seguito delle proteste delle famiglie per la riduzione di organico della scuola speciale presente presso il Centro di riabilitazione “Bignamini” della Fondazione don Gnocchi, che ha visto poi l’istituzione di un Gruppo di lavoro tra i soggetti e che si è conclusa poi con il rinnovo di una convenzione tra l’USR, il Centro di Riabilitazione Bignamini, continua a porci molte riflessioni.

Anzitutto, Medeghini, chiediamo a lei come mai, come sia possibile, oggi a più di 40 anni dalla legge sull’integrazione[1] scolastica italiana, cercare ancora tesi a sostegno del diritto all’istruzione per tutti nella scuola comune, anche di chi è in condizione di disabilità “gravissima”. Non sembra un paradosso storico, continuare a mantenere le “scuole con particolare finalità” giustificate da convenzioni tra i soggetti (USR, Centri di Riabilitazione)? Sappiamo infatti, che a livello normativo “non esistono scuole speciali, non sarebbero previste, ma che si mantengono come strumento di garanzia del diritto allo studio per quei minori con disabilità che debbano frequentare centri di riabilitazione diurni o residenziali e che sarebbero quindi impossibilitati a frequentare le scuole comuni del territorio”. (Merlo, 2015) Un paradosso, se solo pensiamo alla Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità?

Non è un paradosso perché le culture (politica, sociale e scolastica) sono prevalentemente orientate all’immunizzazione e, in parte, al rifiuto delle differenze[2]. Basti pensare alle scuole non integrative giustificate come risposta razionale alla gravità; alle classi con solo alunni migranti a causa di un abbandono da parte delle famiglie italiane; alla selezione dei Licei Classici riportati dai giornali nel febbraio 2018: Visconti, Roma (“… gli studenti sono italiani e nessuno è diversamente abile. Tutto ciò favorisce l’apprendimento”.), D’Oria, Genova (“L’assenza di gruppi particolari, ad esempio nomadi o provenienti da zone svantaggiate, dà un background favorevole”.), Parini, Milano (“Gli studenti del classico, per tradizione, hanno provenienza sociale più elevata. Ciò nella nostra scuola è molto sentito”.); all’aumento dei casi di razzismo presenti nel sociale e nelle scuole; all’abbandono scolastico. I contenuti di questi esempi sono sempre stati presenti nella nostra cultura: a volte sopiti e altre volte eclatanti come nell’oggi, ma sempre operanti nelle culture. Certo, in diverse situazioni sono stati evidenziati, criticati, disapprovati, categorizzati per poi spegnersi con l’unica interpretazione del conflitto fra integrazione e resistenze.  Certamente è utile, è concreta, ma è parziale in quanto, implicitamente, sceglie l’attribuzione all’esterno (resistenze o rifiuto) senza interrogarsi dei limiti e difficoltà insiti nell’integrazione sia nella prospettiva che nel percorso. L’interrogativo da porsi è perché le spinte per un cambiamento culturale e dell’istituzione scolastica siano state normalizzate dalle leggi ed è da qui che dobbiamo partire.

Ad eccezione di alcune voci[3], le spinte (anni sessanta/settanta) innescarono un approccio critico verso le classi differenziali al fine di un loro superamento, lasciando, in ombra, il problema delle classi speciali e dell’istituzionalizzazione. Non era un caso che diverse riviste scolastiche degli anni citati proponessero l’abolizione delle classi differenziali e, contemporaneamente, mettessero in guardia dal superamento delle scuole speciali, avanzando proposte per una loro riorganizzazione e non il loro superamento.

Il taglio del dibattito pedagogico e delle scelte politiche evidenziava, così, una frattura culturale fra il concetto di svantaggio, interpretato in termini di esito sociale, e quello di disabilità che veniva assimilato al non funzionamento per condizioni deficitarie interne alla persona. Il tema del sociale e il problema scolastico si ridussero alla fascia di alunni recuperabili, mentre le disabilità vennero occultate e relegate nei fuori norma tanto da delegarne la definizione e la gestione alla cultura biomedico-individuale e specialistica. Tale dicotomia, tuttora presente, spiega i diversi percorsi, temporali e qualitativi: superamento delle classi differenziali (urgenti anche per la produzione) e delle scuole speciali (protratte nel tempo per l’inabilità). In questa prospettiva, il contenuto della legge 517/1977 ha virato sul versante bio-medico e specialistico nonostante la proposta di legge presentata nel 1975 che tendeva a superare la delega allo specialismo (insegnanti specializzati, operatori sociali e sanitari). L’effetto culturale della norma, dei deficit e dei livelli di gravità ha avuto ricadute negative per diversi anni, coinvolgendo anche l’inserimento di studenti con disabilità nella scuola secondaria di secondo grado che, però verrà superato dalla Corte Costituzionale (1987) per compensare la latitanza della politica. La legge 104/1992, definita Legge Quadro sull’handicap, arrivava a distanza di quindici anni dalla legge 517 e, pur rappresentando un avanzamento significativo, rimaneva e rimane ancorata alle radici della 517, confermando l’idea deficitaria della disabilità.

Il deficit, l’abilismo come criterio del funzionamento, l’orientamento bio-medico, la specializzazione dell’insegnante per il sostegno e la certificazione dell’equipe medico sanitaria rappresentavano e rappresentano ancora i dispositivi dell’integrazione. 

Il paradigma della norma diventa quindi dominante in virtù di un processo incrociato di politicizzazione della medicina e di medicalizzazione della politica (Esposito, 2004, 2017) che coinvolge l’ambito scolastico.

Questa prospettiva ha rafforzato e stabilizzato le pratiche immunizzanti della scuola, tendenti a salvaguardare l’istituzione con diverse forme conservative: la progressività, cioè il legame fra ingresso e acquisizione di abilità sempre meno distanti dalla norma (es. fermare alunni con disabilità nelle scuole primarie per più anni, impedendo l’accesso alla scuola secondaria di primo grado); la differenziazione, cioè nella relazione fra accesso alla scuola e livello di gravità che pone non solo una divisione fra chi può e non può accedere ma dà anche l’indicazione di percorsi differenziati fra chi non è in grado e chi può affrontare il processo di integrazione (si leggano gli interventi dei Licei Classici Visconti, Roma; Parini, Milano; D’Oria, Genova, riportati dai giornali nel febbraio 2018); le condizioni, cioè la richiesta di risorse umane o finanziarie destinate alla persona in ingresso e non al cambiamento della scuola. 

In queste immunizzazioni la prospettiva dello speciale è sempre stata presente e lo è ancora sia all’interno con forme di esclusione (es. attività in gruppi omogenei di alunni con disabilità o individualmente all’esterno della classe) che all’esterno con centri e strutture dedicate; non era e non è nascosta perché è l’esito di un processo politico, sociale e culturale condiviso da molti, fra i quali parte dei dirigenti e docenti.

E non è un caso che la Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità sia inerme per le numerose resistenze qui evidenziate, per la sua caratterizzazione individualista senza mettere in discussione i contesti del sociale e la separazione di categorie.

DOMANDA 2

Due aspetti poi ci sembrano importanti da chiederle: uno di natura linguistica e simbolica, un altro di natura pedagogica. Se le parole sono importanti perché esprimono una rappresentazione sociale di quanto si dice, leggere quanto riporta il sito del Centro di Riabilitazione[4] appare quanto mai contrastante con la cultura a cui – in questi anni in Italia (ma non solo) – siamo giunti sulla disabilità. Parole come “semidegenza scolare”, “scuola speciale”, “regime seminternato”, appaiono così forti perché legati a una cultura istituzionalizzante. Come possono questi termini significare inclusione? Quali “impliciti pedagogici” (come li definisce lei in Animazione sociale n. 1°/2009) nasconde questo tipo di scuola? 

Il lessico citato nella domanda è certamente esito dell’istituzionalizzazione e, quindi, non può essere definito come inclusivo. Basta rivolgersi ai discorsi relativi alla disabilità che si differenziano per gravità del deficit corrispondente ad un luogo specifico o, meglio, speciale. 

Foucault (1994) sottolinea che il linguaggio è questione di spazi delineati e definiti dalla società fra i quali i luoghi altri(eterotopi). Essi sono reali, localizzabili e diversi da tutti gli altri per la loro funzione: luoghi per la devianza in cui vengono collocate le persone definite lontane dalla norma; spazi specifici (ad esempio per la disabilità) e un sistema di apertura e di chiusura per il loro accesso negli spazi (diagnosi e tipologie di disabilità). Ciò che risulta importante non è solo il concetto di eterotopia, ma il fatto che in essa si producono un linguaggio e discorsi caratterizzanti e specifici: lo spazio parla, comunica e relaziona, costituendosi così come un sistema culturale in cui la denominazione del luogo con scritte o icone identifica e proietta rappresentazioni. Il luogo, col linguaggio che lo definisce, dice della disabilità, parla per essa, la definisce, intrappolandola così in un discorso che le impedisce di uscire dai vincoli che il luogo le ha posto. 

La costruzione culturale dello spazio e il suo linguaggio va messa in relazione agli ambiti scientifici, al sistema delle informazioni e alle istituzioni che rivestono il ruolo di produttori e controllori del vero. In tal senso l’oggetto del discorso si costruisce all’interno di relazioni tra saperi discorsivi e istituzioni, norme, metodologie, tecniche: su questo terreno si costituiscono dei dispositivi di sapere che coniugano serie di pratiche e un sistema di verità che ha nella norma il riferimento principale. In queste dimensioni diventa possibile produrre enunciati formulabili (ad esempio i discorsi sulle disabilità) attorno a processi di soggettivazione (persone con disabilità, insegnanti di sostegno, assistenti, educatori) e di oggettivazione (le scritture della disabilità come ad esempio la diagnosi, la classificazione e la gerarchizzazione delle figure educative). Si definisce in questo modo la caratteristica di una società disciplinare, funzionante secondo saperi forti e norme dalle quali si producono discorsi, lessico, forme e pratiche istituzionalizzanti in un processo bio-medico individuale.

È evidente che se tale processo viene assunto dai dirigenti e dai docenti, la cultura della scuola non solo viene organizzata e gestita in base ad impliciti pedagogici che possono contribuire all’esclusione e/o alla marginalizzazione di gruppi di studenti, ma si orientata anche alla formazione di scuole e classi non integrative. Ma quali sono gli impliciti pedagogici?

  • la concezione abilista la cui radice teorica è in relazione al sapere bio-medico individuale e alle conseguenti pratiche (discorsive e non) che considerano il deficit come dato interno alla persona e come fattore causale delle difficoltà. Ne deriva che la cultura scolastica ed educativa tende a valutare e definire la posizione di una persona in base alla partizione fra abilità/non abilità, definendo così le possibilità/non possibilità di apprendimento e/o di relazione e/o sociali;
  • la neutralità dei contesti, dove le forme organizzative, i processi di insegnamento-apprendimento, le relazioni educative e sociali sono considerate come elementi «neutri», estranei al cambiamento; 
  • la neutralità degli attori che vi operano (dirigenti, docenti…) i quali faticano non solo ad assumere la responsabilità degli esiti, ma tendono a delegare allo specialismo la gestione dei percorsi ritenuti difficili. Da qui la scelta di scuole non integrative ; 
  • le differenze come esito del deficit individuale;
  • l’adattamento e la normalizzazione  sono indicativi di una resistenza culturale della società e delle istituzioni formative verso le differenze alle quali si risponde con il principio dell’ «uguaglianza delle opportunità» che risulta contraddittorio in quanto utilizza un criterio di omogeneità per dare una risposta alle presenze plurali.

DOMANDA 3

Proviamo a riflettere ora mettendoci dalla parte delle famiglie, di chi sceglie oggi la scuola speciale piuttosto che la scuola comune. E’un tema delicatissimo questo, quello che ci preme è capire con lucidità quello che accade. Perché ci si trova a poter scegliere ancora una scuola dentro a Centro Riabilitativo? Verrebbe da pensare che il Centro di riabilitazione che mi offre anche istruzione internamente sia rassicurante, in un tempo di fatica e di incertezza come quello di una famiglia con un figlio in fase evolutiva con disabilità complessa. Una soluzione che semplifica quel faticoso e a volte anche inadeguato e complesso sistema di rete territoriale (diritto all’istruzione, il diritto alla fisioterapia, il diritto all’assistenza domiciliare, al trasporto) E poi c’è il grande tema della presa in carico. Oggi le nostre Unità Multidisciplinari territoriali sono sottodimensionate, strutturalmente inadeguate a coprire i bisogni, a fare verifiche, e il lavoro di rete dei soggetti (educatore, scuola, famiglia ecc…) è sempre complicato, spesso nei casi di disabilità complessa anche per mancanza di competenze professionali. Forse, la scuola dentro al centro di riabilitazione, può apparentemente semplificare questo lavoro di rete? Una rete che però rischia un’asfissia se non si alimenta del fuori, gettando le basi per un percorso verso l’istituzionalizzazione della persona disabile adulta?

Provo ad affrontare alcuni temi:

Risorse

In precedenza ho sottolineato la prevalenza di meccanismi conservativi, ma soprattutto immunizzanti, da parte delle culture (politica, sociale e scolastica) tanto che le risorse vengono invocate come condizioni di tutela dell’organizzazione e non come possibilità e mezzi per il cambiamento e l’innovazione in grado di aprirsi alle differenze.

Si spiegano così i diversi fallimenti dell’integrazione pur in presenza di risorse adeguate: ne sono un esempio gli studenti con disabilità che trovano poche opportunità di partecipazione all’apprendimento in classe nonostante una copertura adeguata di ore; i progetti sociali per le persone con disabilità che rimangono confinate ad un primo livello di inserimento. L’elenco potrebbe continuare, ma la sottolineatura riguarda la condizione che potremmo definire «handicap da conversione[5]», cioè un’impossibilità a tradurre in positivo le risorse che vengono messe a disposizione (ad esempio le ore dell’insegnante di sostegno e dell’assistente educatore). L’inadeguatezza produce, quindi, un «doppio handicap» in quanto svantaggia doppiamente la persona: il primo deriva dalla relazione fra deficit e struttura del contesto e il secondo dall’incapacità del contesto di tradurre le risorse in cambiamenti, ad esempio, la vita di classe per l’alunno con disabilità. Da qui le cause: la centralità del deficit e della relazione fra deficit-bisogno-risorse esposte al singolo, eludendo i fattori contestuali che rappresentano davvero le cause dell’esclusione.

La famiglia e la rete

Le attuali politiche e, in genere, il linguaggio educativo e scolastico sottolineano spesso la centralità della famiglia e dell’impatto problematico della disabilità per il quale si orientano ad un’epistemologia individualista senza leggerne e interpretarne i problemi alla luce dei sistemi relazionali dei contesti sociali ed istituzionali. In questa prospettiva la famiglia viene esposta ad una condizione di solitudine e alla percezione di abbandono e, allo stesso tempo, la visione della disabilità come problema individuale costringe la persona con disabilità ad avere l’unico riferimento nella famiglia o nei servizi: l’esito è un possibile isolamento che coinvolge genitori e figlio con disabilità, esponendoli così ai rischi dell’esclusione.

La condizione di solitudine rispetto al sociale, la percezione dell’abbandono, le reti che si riducono ai servizi, la centralità dell’istituzione scolastica e la sua difficoltà nella gestione degli alunni con disabilità più o meno complessi, l’assenza di reti sociali costringono le famiglie alla ricerca di una tutela attraverso strutture dedicate. Questo elenco, non esaustivo, ci permette di comprendere le cause della sopravvivenza delle strutture non integrative e non inclusive: l’egemonia bio-medico individuale nelle reti di servizio, l’assenza delle reti sociali, l’evidente autoreferenzialità della scuola e la sua difficoltà nella gestione degli alunni con disabilità.   

Come uscirne? Orientarsi verso l’approccio inclusivo dove il riferimento alla famiglia viene rivisto e riproposto come uno dei nodi della rete sociale. Infatti, pur riconoscendo alla famiglia un ruolo importante, la prospettiva inclusiva non isola questo microsistema dagli altri, ma lo pensa nelle diverse relazioni a tal punto da proporre un potenziamento di queste ultime. L’inclusione si orienta ad un sistema qualitativo di rete che non isola i singoli nodi del sociale, ma investe sulla costruzione, mantenimento e potenziamento delle loro relazioni, azioni e interazioni in quanto generatrici di possibilità. In questa prospettiva si delinea un’idea di servizio come territorio passando da un concetto di rete burocratica e tecnica ad una rete ricca di contesti e persone che, assieme, permettono al servizio di uscire dall’autoreferenzialità per assumere invece la dimensione di nodo della rete. Allo stesso modo, si chiede alla scuola di non scorporare la sua esperienza dall’insieme dei legami sociali che  la coinvolgono. Trattare la scuola come entità separata dal più vasto concetto di relazione sociale equivale a definire un principio di autoreferenzialità che impedisce di connetterla con altre questioni legate alla esclusione. Ciò significa che non vi può essere un progetto adeguato di costruzione di legami sociali interni alla scuola senza che questo si misuri e coinvolga il territorio.

In questa direzione risulta importante ancorare gli obiettivi e gli interventi alle relazioni esistenti fra persona, contesti e corso di vita: mete, obiettivi ed inter­venti assumono in tal modo un carattere di flessibilità e di modificabilità pro­prio per la stessa natura dinamica ed evolutiva del farsi delle relazioni. Questo sfondo concettuale e metodologico diventa decisivo in quanto permette di pensare alla scuola e all’azione didattica come a uno dei contesti dell’inclusione e di vederlo in continua interazione con altri (famiglia, territorio). Non è più sufficiente in­fatti pensare ad un obiettivo (ad esempio l’apprendimento di un contenuto o di una procedura) nella sua sola vi­sione strumentale senza che si sia definita una sua validità, appunto, ecologica (quale vantaggio procura, come può essere speso nell’ambiente, quale apporto dà all’autonomia) oppure sostenere le relazioni sociali nella scuola senza collegarle e proiettarle progettualmente verso il sociale. L’inclusione richiede quindi di ricomporre in un quadro unitario tutti gli ambiti che, con maggior o minor responsabilità, e interrelazione, intervengono nel processo biografico formativo: la famiglia, la scuola, i servizi, le associa­zioni, ma anche le reti informali della società come i gruppi, i compagni di classe, il vicinato, i conoscenti che a vario titolo interagiscono con la persona disabile. Questa rete di interdipendenze è essenziale in quanto il concetto di inclusione richiede di pensare non solo a luoghi istituzionali aperti, ma anche agli altri luoghi dell’inclusione, quelli meno formali a volte inattesi, ma po­tenzialmente forti e significativi, che consentono di concretizzare un progetto integrato ed evolutivo.

DOMANDA 4

  1. La disabilità grave e gravissima, sembra proprio questo il punto tale da giustificare la possibilità di una istruzione separata dai contesti di tutti che va assolutamente contrastata sul piano anzitutto pedagogico, cioè, che la gravità sarebbe la condizione per accedere alla scuola separata. Anzitutto, come si misura il livello di gravità, sulla base del funzionamento fisico della persona? Quando si diventa così gravi tali da giustificare il fatto che si ha bisogno di una scuola speciale? In che modo oggi possiamo dire che anche un disabile grave è educabile? Ha ancora senso, sul piano pedagogico, parlare di educazione per criteri di omogeneità di disabilità? 

Il concetto di gravità e i suoi livelli vengono definiti tramite una valutazione del funzionamento cognitivo, produttivo e autonomo dai quali si producono gli stati di dipendenza, le risposte di cura e di sostegno. È evidente l’influenza e l’egemonia del paradigma abilista-individuale che fissa la condizione delle persone tramite il vincolo della diagnosi, delle decisioni e del welfar sulla base della normalità: avanza così una disabilità fissata in una categoria che viene prodotta e oggettivata, che delimita l’estensione dei bisogni e che proietta il percorso di vita in spazi dedicati dai quali non può svincolarsi. L’oggettivazione e bisogni sono, perciò, correlati e definiti, vincolati anche alla produzione, costruzione e separazione tra luoghi normali e speciali in virtù di un processo incrociato di politicizzazione della medicina e di medicalizzazione della politica[6] che coinvolge anche l’ambito scolastico.

Gravità e bisogno vengono così prodotti dalla norma, dall’oggettivazione e dalle categorizzazioni ed è evidente che il superamento dei significati sopra evidenziati permette nuove prospettive.

Nell’ambito della “gravità” e seguendo il percorso di Canguilhem (1998) la differenza fra normale e patolo­gico diventa indeterminata e approssimativa se applicata ad un insieme di in­dividui differenziati, ma acquista una sua precisione nella vita di un individuo proprio per i significati che esso vi attribuisce. In questa prospettiva una perdita o un’assenza non sono sufficienti a provocare un disturbo: infatti questo viene messo in evidenza nel momento in cui si coinvolge una persona in qualcosa che ignora, ma se la stessa persona è sollecitata, magari nella stessa funzione come ad esempio il linguaggio, ad esprimersi in ciò che è in grado di fare, la prospet­tiva cambia. Ne consegue che la norma oggettiva viene messa in discussione per fare posto ad una molteplicità di norme che corrispondono alla specificità di ogni individuo: norme individualizzanti, quindi, ma che si articolano in una molteplicità di relazioni con quelle degli altri.

E il bisogno? Seguendo, invece, la prospettiva dei bisogni radicali di Heller (1973), i bisogni sono orientati ai valori e alla comunità. Il pensiero di Heller, infatti, si concentra sulla condizione umana (l’amicizia, l’amore, le relazioni autentiche, il lavoro soddisfacente e riconosciuto, giustizia, la realizzazione di sé) e sul fine di una società giusta. Il problema è quello di costruire una nuova visione valoriale, in grado di superare la deriva della dittatura del bisogno come bisogno oggettivato. Sembra chiaro che in quest’ultimo approccio, la prospettiva non è tanto quella di dare solo risposte ai bisogni, ma di costruirne altri e diversi dove l’uomo sia al centro delle dinamiche sociali che lo coinvolgono e che rendono questa costruzione continuamente in evoluzione.

É qui che emerge il tema di una comunità nella quale l’Altro rimanda contemporaneamente a se stessi e agli altri e dove il loro incontro diventa sempre problematico: nella dimensione individuale, dove è sempre in atto il conflitto fra bisogni alienati e radicali e, in quella sociale, esposta continuamente al controllo dell’Altro: in questo modo, Heller sposta l’argomentazione dal singolo bisogno e dalle risposte conseguenti a quello di comunità.

E l’educabilità? Per ricondurre la persona alla normalizzazione oppure per ridare voce alla persona nelle relazioni e nel percorso di vita? Per utilizzare l’interpretazione medico-individuale e la specializzazione del linguaggio tecnico e normativo oppure per spogliarsi dal pensiero normativo e per ricercare, comprendere, sintonizzarsi ed interagire con la norma della persona con disabilità che insegnanti ed operatori hanno di fronte?

In questa prospettiva non abbiamo bisogno di scuole speciali, ma l’operazione dell’includere tutti, può assumere diverse prospettive. L’inclusione responsabile (Bowe, 2005), che è presente anche in Italia, afferma la necessità di opzioni specifiche (es. scuole speciali) per la difficoltà dell’istituzione scolastica ad offrire un’istruzione adeguata ad alunni e studenti con gravi disturbi o con disabilità complesse. Questa posizione è conforme alla Dichiarazione di Salamanca in cui si propone l’inserimento di tutti gli alunni nella classe ordinaria a meno che non si oppongano motivazioni di forza maggiore (Unesco, 1994).  In questo sfondo si genera l’escludibile non solo nella generalità degli alunni e studenti, ma all’interno delle stesse categorie che sono oggetto dell’inclusione, evidenziando, così, una forte contraddizione con i principi generali dell’inclusione sopra esposti. 

La piena inclusione comprende, invece, tutte le condizioni delle differenze indipendentemente dalla gravità, trascende la normalità e le etichettature, supera la denominazione dell’altro perché sottolinea la partecipazione anziché i criteri normativi; inoltre richiede un coinvolgimento attivo culturale e non l’acquisizione e l’applicazione passive di un modello. In questa prospettiva supera la standardizzazione dello spazio, dell’organizzazione, della didattica e dei suoi contenuti in una prospettiva per tutti. Inoltre riesce ad uscire dall’autoreferenzialità per organizzarsi come un nodo della rete sociale e dei servizi in grado di partecipare al progetto di vita dei propri alunni e studenti. 

Ciò implica necessariamente un cambiamento e riposizionamento culturale che non si limiti all’area dell’educazione, ma che coinvolga anche la politica nel superare l’impronta medicalizzante costruita sulla teoria bio-medica del deficit individuale; nel non limitarsi al concetto di tutela, ma nell’orientarsi ai sistemi di contesto e ai loro effetti di esclusione e marginalizzazione sociale; nell’abbandonare l’approccio legislativo integrativo legato ai livelli di abilità e di gravità, aprendo, così, una scuola e un insegnamento aperto alle differenze senza limitazioni nell’utilizzo di mediatori e di strumenti per tutti gli alunni e studenti. 

Conseguentemente vengono sollecitati anche i saperi forti a collocare il sapere all’interno dei contesti e delle relazioni per evitare una conoscenza autoreferenziale ed isolata; a caratterizzare le osservazioni nella prospettiva delle potenzialità; a superare gli elementi definitori categorizzanti e il carattere burocratico, configurando così un linguaggio orientativo in grado di confrontarsi e di interagire con i linguaggi dell’apprendere e dell’insegnare. In quest’ultima sottolineatura si configura ciò che Morin (1994) definisce democratizzazione della conoscenza ovvero, democrazia cognitiva, dove il sapere viene diffuso, confrontato e condiviso. Questa prospettiva permetterà di uscire dalla produzione normativa delle differenze, dalla posizione di potere e dagli atti d’autorità fondati su un sapere categorizzante e normalizzante.  

DOMANDA 5

Il clima culturale in cui oggi ci troviamo, quanto incide nei processi sociali? L’integrazione scolastica è stata possibile non per delle leggi calate dall’alto, ma per una diffusa partecipazione di molti a partire dalle famiglie, dalle associazioni, dagli operatori dei servizi… quel clima culturale ha portato poi grandi cambiamenti in Italia negli anni 70… Secondo lei, qual è il ruolo e il compito della scuola oggi?

Siamo in presenza di una cultura neoliberista dominante e trasversale che fa oscillare il pendolo verso l’espulsione dell’altro; verso un accentuato  individualismo; verso l’abilismo e la neutralità dei contesti; verso il biologico presente nella prospettiva bio-medico individuale; verso la categorizzazione, il riduzionismo e la semplificazione delle idee e del linguaggio in contrasto con la complessità; verso l’affermazione della delega alle figure specializzate (medici, insegnanti specializzati per il sostegno, formatori) come elementi sostitutivi richiesti dal sociale e dalle politiche burocratiche e di controllo che si ritirano dalla responsabilità verso un reale progetto di vita per le persone. È evidente che il tema della delega e delle sue rappresentazioni rimandano sempre a persone sradicate dai sistemi sociali in cui vivono.  Non è il frutto solo dell’oggi, ma l’esito anche del “prima” come ho sottolineato nella prima domanda, riferendomi ai processi di immunizzazione. Ma ciò che risulta critica è l’operazione esterna delle istituzioni e del sociale tendente ad includere per normalizzare attraverso l’omogeneità formativa e di insegnamento, ispirandosi alla teoria liberale dell’uguaglianza delle opportunità; un principio, questo, che risulta contraddittorio in quanto utilizza un criterio di omogeneità per dare una risposta alla presenza plurale delle differenze. 

L’ambiguità dell’inclusione normalizzata richiede, quindi, un suo riposizionamento: la questione dell’oggi è che cosa facciamo per mettere in crisi e superare la cultura e le pratiche costruite sulla norma da cui si genera la categorizzazione e la dissimulazione dell’esclusione (Slee e Allan, 2001). Riposizionare l’inclusione significa distaccarsi dall’ambiguità delle definizioni e dei suoi significati per orientarsi a scelte e prassi culturali, politiche, educative e didattiche in grado di affermarla. 

Ma quali?

La via d’uscita si trova nella sospensione dei presupposti che caratterizzano l’altro e ciò non significa che non si possano utilizzare studi, ricerche e osservazioni dei processi di apprendimento: la scuola, infatti, ne ha bisogno per superare il carattere di “contenimento” delle difficoltà e per assumere consapevolezza, competenze e responsabilità. Il problema si presenta quando la scuola delega al paradigma bio-medico individuale e agli specialisti; quando sovrappone la categorizzazione agli alunni e studenti; quando richiede la certificazione per utilizzare i supporti all’apprendimento; quando abbandona il linguaggio pedagogico per assumere quello specialistico; quando è orientata all’applicazione di metodologie senza un pensiero che lo giustifichi; quando segue la cultura del prevedibile; quando utilizza i voti come potere e di controllo. 

L’allontanamento da queste modalità e pratiche permette alla scuola di recuperare il significato originario dell’educazione e dell’apprendimento, di uscire dalla produzione normativa delle differenze e da una posizione di potere basata sui parametri di normalità e di valutazione. Accettare di mettersi in gioco di fronte alla sfida della complessità presente nell’attuale processo formativo e di insegnamento rivolto a tutte le differenze. Questo cambiamento di paradigma, articolato su un versante pedagogico, è la reale tutela che possiamo offrire a tutti gli alunni e studenti.

BIBLIOGRAFIA

  1. 2016, Medeghini R., L’inclusione chiede un cambiamento di sistema. La prospettiva dei Disability Studies Italy.In Appunti sulle politiche sociali, Gruppo Solidarietà, Ancona, pp.1-8.
  2. 2018, Medeghini R., Uscire dall’inclusione? L’inclusione scolastica tra problematizzazione, ambiguità e normalizzazione. In Disability Studies e inclusione. Per una lettura critica delle politiche e pratiche educative, Trento:EricKson, pp.205-230.

[1]Il significato di inclusione e di integrazione non si sovrappongono. Se l’integrazione assume il paradigma biomedico individuale, i Disability Studies Italy (DSI) decostruiscono la concezione di disabilità nel suo legame col deficit, con la norma standardizzata e, di conseguenza, con l’epistemologia medico-individuale che la determina. Non si limita alla disabilità, ma coinvolge soprattutto il significato delle differenze, spostando l’attenzione da un deficit caratterizzante la persona al possibile ruolo disabilitante del sociale, dei suoi contesti e delle relazioni che in essi si attivano: da qui l’analisi delle barriere per un progetto di vita proiettato verso l’emancipazione dal deficit e dall’esclusione. Inoltre mette in discussione diversi piani: il bisogno come mancanza; la cura come conseguenza del non funzionamento; i servizi (ad es. per la disabilità, gli anziani, …) come strutture delegate dalla politica e dal sociale ad occuparsi delle persone ritenute bisognose di cura; la scuola come contesto di categorizzazione e di selezione sulla base del funzionamento degli alunni e studenti (es. Bisogni Educativi Speciali). 

[2]Differenza non come elemento deficitario, ma come modalità personale e originale di porsi nella vita

[3] Basaglia F., Zappella M.

[4] https://www.dongnocchi.it/@strutture/centro-bignamini-don-gnocchi/servizi/ciclo-diurno-continuo-cdc-scuola-speciale-semidegenza%20

[5] Tale definizione è presa in prestito da A.Sen (Inserto domenicale Sole 24 Ore – 4 settembre 2005 – p.36) il quale, riferendosi al concetto di povertà, mette in relazione le risorse con la possibilità di convertirle in forme di vita adeguate. 

[6] (Esposito, 2004,2017)

LE RISPOSTE DELLE FAMIGLIE E DEGLI ALUNNI/STUDENTI IN MERITO ALLA SCUOLA PRIMA E DURANTE IL LOCKDOWN (2020)

La ricerca è stata ideata e condotta da Roberto Medeghini, Giuseppe Vadalà e Fabio Bocci del Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies (GRIDS), appartenente al Laboratorio di Ricerca per lo Sviluppo dell’Inclusione Scolastica e Sociale del Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre, avvalendosi della collaborazione del sociologo Walter Nanni (Caritas Italiana) e del Dott. Gianmarco Bonavolontà dell’Università Roma Tre. Come già indicato, l’obiettivo è stato quello di rilevare il rapporto degli alunni/studenti e delle loro famiglie con la scuola e il tempo libero durante il periodo faticoso del lockdown per la Pandemia Covid-19. La rilevazione ha coinvolto 5000 persone, alle quali riteniamo sia dovuta una sintesi delle risposte maggiormente significative .

LE RISPOSTE DELLE FAMIGLIE

Coinvolgere le famiglie significa ascoltarle per potenziare la collaborazione con la scuola attraverso confronti positivi senza conflitti e senza l’utilizzo del potere. Quindi, risulta interessante leggere la vita scolastica ed extrascolastica degli studenti dal punto di vista dei genitori.

In classe prima e durante il lockdown delle figlie/i

Star bene in classe prima del coronavirus e la reazione alla chiusura della scuola hanno avuto in generale risposte diverse: “andare volentieri a scuola” e “le positività delle relazioni con le/i compagne/i” si posizionano rispettivamente al 85.7% e al 90%, mantenendosi anche nei diversi ordini scolastici. Le reazioni alla chiusura della scuola presentano, invece, risposte diversificate: secondo i genitori il 49.7% dei figli/e si sono dimostrati “non contenti e dispiaciuti” e il 35.9% “contenti e molto contenti”. In particolare, la chiusura delle scuole è stata accolta in positivo dagli studenti della Secondaria di primo grado (40.3%), mentre si sono dimostrati maggiormente dispiaciuti i figli/e frequentanti la scuola Primaria (52.8%). Fa riflettere il confronto tra le alte percentuali dell’“andar volentieri a scuola” e dello “star bene con compagni/e” orientati alle relazioni e dello stare insieme e le percentuali dei “contenti e molto contenti” della chiusura delle scuole che risentono del carico dell’apprendimento.

Inoltre, è da sottolineare che la presenza di un disturbo di apprendimento o di una disabilità (che nell’economia di un’analisi complessiva dei dati vengono considerati come un’unica categoria) modifica la percentuale:

  • 70,5% dei genitori degli studenti con certificazione asserisce che i loro figli vadano a scuola volentieri (diversamente dalla media complessiva pari a 85,7%) e che il 23,5% ci vada poco volentieri (contro il dato complessivo pari a 9,5%);
  • il 79% sostiene che il figlio con certificazione si trova bene con i compagni e le compagne (diversamente dal dato sul campione complessivo che si attesta attorno al 90%), mentre il 17% sostiene si trovi poco bene nella relazione con le compagne e i compagni.

Difficoltà nell’apprendimento e nella didattica

Le difficoltà nell’apprendimento

Le difficoltà sono state divise tra difficoltà e Bisogni Educativi Speciali fra i quali sono inseriti anche gli alunni/studenti con DSA (42.94%) e con disabilità (7.47%). Le risposte a “Sua/o figlia/o ha difficoltà nell’apprendimento?” indicano in generale una percentuale di 13.4%: distribuendo le risposte tra i gradi delle scuole, si coglie una differenza tra primaria (11.6%) e la scuola di secondo grado (17,1%). Le risposte a “Figlia/o deve essere aiutata/o nei compiti?”, invece, indicano in generale che un quarto degli alunni necessita di aiuto.  Questo dato si ripresenta con la distribuzione nei gradi della scuola: infatti la scuola primaria evidenzia la necessità di essere aiutati nei compiti nel 28.5%, una percentuale del 23% nella secondaria di primo grado e il 13.6% nella scuola di secondo grado.

Le difficoltà delle famiglie nella gestione della didattica

Le difficoltà

L’analisi ha rilevato il 92% delle difficoltà delle famiglie nella gestione della didattica. In generale, le cause principali vengono, qui, presentate in ordine progressivo dal primo al quarto livello: la quantità dei compiti, il tempo ridotto per seguire i figli nei compiti, il numero insufficiente dei dispositivi e alla difficoltà della connessione della rete La distribuzione nei gradi della scuola mostra, però, alcune differenze: le principali difficoltà nella scuola primaria sono, il tempo ridotto (37.8%) e la quantità dei compiti (30.6%); nella scuola secondaria di primo grado la quantità di compiti (31,2%) e il tempo ridotto (27.2%) con l’aggiunto della difficoltà della rete (23.8%); nella scuola secondaria di secondo grado, invece, si presentano difficoltà della rete (27.3%) e la quantità dei compiti (25.8%). Gli esiti indicano difficoltà simili nei tre ordini di scuola, ma che non si posizionano allo stesso modo: ad esempio, il problema principale della scuola primariaè il tempo ridotto, la quantità dei compiti della secondaria di primo grado e la difficoltà di rete della secondaria di secondo grado.

I compiti

Un aspetto delle difficoltà è “rimanere nei tempi dei compiti indicati dagli insegnanti” la cui percentuale media delle tre scuole si colloca al 76.3%: il resto si distribuisce tra l’impedimento nel mantenersi nel tempo (5.3%), le risposte che non danno un parere (12.5%) e opinioni diverse (6.2). Analizzando quest’ultime, si trovano risposte che rientrano nella difficoltà a gestire il tempo dei compiti: “a volte riesco”, “non sempre”, “molta fatica”. Ciò indica che la percentuale del 5.3% dovrebbe aumentare, soprattutto in presenza della quantità, della difficoltà dei compiti e del tempo ridotto a disposizione delle famiglie.

Come i genitori si organizzano durante il lockdown

I genitori seguono i suggerimenti dei docenti della primaria nel 48.77%, nel 42% della secondaria di primo grado, mentre nella secondaria di secondo grado si riducono significativamente al 23%. È evidente che quest’ultima differenza sia dovuta ad un’autonomia superiore la quale si presenta anche in altre modalità: ad esempio, i genitori con figli alla scuola primaria decidono i tempi dei compiti nel 27%, mentre nella scuola secondaria di primo e di secondo grado le percentuali si collocano rispettivamente al 5,9% e al 3,8%; inoltre, il consenso per la gestione dei compiti da parte dei figli si posiziona al 4.7% nella primaria e, rispettivamente, al 34.44% e 64.32% nelle scuole rimanenti. Nelle risposte aperte i genitori segnalano difficoltà nel far conciliare il tempo smartworking o il lavoro fuori casa con l’aiuto ai compiti e al video lezioni.

Gli aiuti degli insegnanti e le risposte delle famiglie

“Gli insegnanti seguono e aiutano la figlia/o?”

I genitori sottolineano che l’intervento da parte di tutti gli insegnanti è solo il 56% e sommando le aree di “solo alcuni insegnanti” “solo uno insegnante” e “nessun intervento” degli insegnanti si trovano davanti alla percentuale circa del 40%: l’esito generale è similare alla distribuzione delle risposte nei diversi gradi delle scuole. I genitori hanno evidenziato che l’intervento limitato degli insegnanti è causato da: gli scarsi contatti diretti, l’organizzazione della didattica a distanza, la funzionalità dei dispositivi, la priorità di assegnare i compiti, la delega ai colleghi: in questa prospettiva viene meno sia l’aiuto che la personalizzazione.

“Come genitore quanto si sta sentendo aiutato dagli insegnanti?”

Molto spesso si fa riferimento alla collaborazione fra insegnanti e genitori: quale esito si è presentato in questo tempo del coronavirus? In generale, l’esito delle risposte positive sopra la sufficienza (10.90%) si colloca al 61.70% e il risultato della distribuzione nei diversi gradi delle scuole si presenta similare. Naturalmente le risposte sono positive e indicano la presenza di insegnanti che seguono gli alunni/studenti, attivando “contatti, aiuto, comunicazione, esercizi mirati…”.  Al contrario, quasi un terzo delle famiglie ha valutato negativamente le modalità utilizzate dagli insegnanti:” poca disponibilità, solo didattica, assenza di contatti e di relazioni, disorganizzazione e delega alle famiglie le spiegazioni dei compiti e dello studio…”.

I dispositivi

“Quali modalità durante l’azione didattica?”

Questa domanda mette a confronto prevalentemente l’utilizzo dei video lezioni in sincrono e dei libri. Certamente la videoconferenza è utile per le lezioni, ma quanto vengono utilizzati i libri? In generale, le video lezioni in sincrono sono utilizzate per l’82.52% e le video lezioni registrate dall’insegnante per 11.11%: sommati arrivano al 93.63%. Quest’ultimo dato lo si trova nella secondaria di primo e secondo grado con rispettivamente il 98.43% e il 97.52%., mentre la percentuale della primaria si colloca al 88% assieme alla percentuale del 24% del video lezione registrati dagli insegnanti. E l’utilizzo dei libri? In generale si colloca quasi al 5% e nella distribuzione tra secondaria di primo e secondo grado la percentuale si colloca rispettivamente al 1.24% e 0.68%: un 10% nella primaria. Gli esiti richiedono diverse riflessioni che faremo: adesso, però, possiamo sottolineare che una didattica adeguata deve equilibrarsi tra dispositivi digitali, testi e libri.

Il Futuro

Quando si rientrerà, quale scuola vorreste? Le risposte dei genitori si dividono su tre ambiti: un 30% si orienta ad una scuola come prima e il resto è divisa tra una modificazione parziale (53.5%) e una scuola completamente diversa (11.6%). La distribuzione delle risposte in merito alla modificazione parziale indica un 50.5% della scuola primaria, un 54.4% della secondaria di primo grado e un 6.4% della secondaria di secondo grado. I motivi del cambiamento riguardano l’organizzazione e la collaborazione, l’accoglienza, l’inclusione, a misura degli alunni/studenti, classi meno numerose, scuola sicura e con igiene, innovazione delle modalità di insegnamento, tecnologia come supporto, lezioni in presenza.

L’EXTRASCUOLA VISTA DA CASA. TEMPO E RELAZIONI

Il lockdown ha rappresentato indubbiamente una singolare occasione di vivere il medesimo tempo dentro il medesimo spazio per genitori e figli: entrambi hanno vissuto l’impossibilità di avere un tempo proprio, un tempo differenziato anche in base al ruolo e all’età. Per i genitori è stata l’occasione (non semplice) di vivere il tempo dei propri figli. Le possibilità relazionali, le amicizie, la modalità di trascorrere il tempo a casa (prima e dopo il lockdown) dipendono ovviamente molto dall’età degli studenti.

Differenze significative

Amicizie

Le amicizie dei bambini più piccoli sono spesso le amicizie familiari. Risulta interessante notare che i genitori dichiarano che la quantità di amicizie è inversamente proporzionale al crescere del grado scolastico:

  • il 75,3% della scuola primaria ha molti amici e il 20,6% ne ha pochi
  • il 67,9% della scuola secondaria di I grado ha molti amici e il 28,4% ne ha pochi
  • il 59,3% della scuola secondaria di II grado ha molti amici e il 35,9% ne ha pochi

Questo dato sembra stridere piuttosto significativamente con la frequenza con cui gli studenti (agli occhi dei genitori) riescono a mantenere i contatti con le proprie amicizie:

  • solo il 30,6% dei bambini della scuola primaria mantiene un contatto quotidiano contro il 69,7% degli studenti della scuola secondaria di I grado e addirittura l’81,1% degli studenti della scuola secondaria di II grado.
  • il 59% dei bambini della scuola primari ha contatti solo saltuari con amiche e amici, contro il 27% degli studenti della scuola secondaria di I grado e addirittura il 16% degli studenti della scuola secondaria di II grado.

Il tempo

“La gestione del tempo” assume connotazioni differenti in base al grado scolastico frequentato dal figlio: se i genitori di bambini della scuola primaria si attestano su valori più alti di difficoltà (il 21,7% risponde convalori tra 8 e 10), i genitori degli studenti della scuola secondaria di I grado che indicano valori elevati di difficoltà sono il 16% e addirittura il 9,9 quelli della secondaria di II grado

La variabile DSA/Disabilità

Più della variabile “grado scolastico” incide però l’eventuale presenza di un disturbo di apprendimento o di una disabilità (che nell’economia di un’analisi complessiva dei dati vengono considerati come un’unica categoria). Risulta infatti interessante notare che:

  • rispetto alle amicizie si evidenzia un calo non indifferente: il 47,5 dichiara che il proprio figlio o la propria figlia abbia pochi amici e addirittura nessuno per il 3%, mentre le percentuali sul dato complessivo rivelavano un 27% di genitori che valutavano poche le amicizie e quasi nessuno che denunciasse l’assenza di amicizie
  • anche il mantenimento delle amicizie durante la quarantena, di conseguenza, assume connotazioni differenti: per i genitori degli studenti con certificazione il 45% mantiene contatti saltuari, dato più elevato di quanto risulta nella media complessiva (38%), mentre il 45% mantiene contatti quotidiani (contro il 56% della media)
  • per quanto riguarda il tempo trascorso in casa durante il lockdown, si evidenzia una maggiore difficoltà nella “gestione del tempo in assoluto” per i genitori di bambini o ragazzi con certificazione. In effetti, il 28,5 dei rispondenti si attesta su un livello di difficoltà piuttosto elevato (con valore da 8 a 10), mentre la media complessiva, sugli stessi valori, si attesta attorno al 17%
  • coerentemente con il punto precedente, anche la “gestione del tempo libero” evidenzia livelli difficoltà differenti: 23,5% dei rispondenti colloca un valore di difficoltà tra 8 e 10 mentre nella media complessiva, si collocava sugli stessi valori il 17%

Il Futuro.

Alcuni elementi complessivi di comunità

I genitori auspicano un territorio già rispondente ai loro desideri e bisogni rispetto a quello che abitavano: il 56,9% vorrebbe la propria città parzialmente diversa, il 14,7 % la vorrebbe addirittura completamente diverso. Un aspetto interessante della comunità di vita riguarda la capacità ella stessa di rappresentare un supporto in un tempo non facile come quello dell’isolamento forzato che abbiamo dovuto vivere da fine febbraio: 1/3 dei genitori che hanno risposto al questionario ha trovato poco aiuto da amici e amiche.

LE RISPOSTE DEGLI ALUNNI/STUDENTI

Coinvolgere gli alunni/studenti significa ridare la loro voce e la possibilità di esprimere risposte, obbligandoci ad una riflessione. Andando a leggerle, scopriamo che questo tempo assume una ricchezza e una versatilità che il mondo adulto dovrebbe provare a prendere in considerazione.

In classe prima e durante il lockdown

Star bene in classe prima del coronavirus e la voglia di ritornare nella scuola durante il lockdown hanno avuto in generale risposte positive ma diverse: la prima (Star bene in classe) si posiziona al 88.55%, mentre l’altra (Voglia di ritornare) al 75%. Perché la percentuale si abbassa? Analizzando gli esiti specifici dei gradi delle scuole, si evidenzia che la differenza è dovuta alla scuola secondaria di primo grado con uno scostamento del 16% dalla Secondaria di secondo grado. Fa riflettere che il 90% degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado riducono la scelta di tornare a scuola.

Le risposte degli alunni/studenti in merito a…

La didattica alla distanza è un tema analizzato ed è fonte di differenze tra specialisti, insegnanti, pedagogisti, politici… Gli alunni/studenti, invece, non vengono interpellati o solo in parte, mentre questa ricerca ha dato voce agli alunni e studenti. Quali sono le loro risposte alla domanda: “ Cosa ne pensi di questa modalità di interagire con i tuoi insegnanti?” Quali sono le loro risposte? Le risposte degli alunni si suddividono tra positivi (cosa nuova, divertente, interessante … 51.9%) e negativi (gli insegnanti si limitano ad assegnare i compiti, non sono abituati, manca il contatto diretto …46.2%). Tra le risposte positive la maggiorparte ha selezionato “la novità”, mentre tra quelle negative emerge “l’assenza del contatto diretto”. La distribuzione delle risposte nella Scuola primaria e Secondaria di primo grado conferma la valutazione in negativo, mentre nella Secondaria di secondo grado si evidenzia una scelta in positivo.

I compiti

Qualità, quantità. Le risposte degli alunni/ studenti hanno indicato se i docenti hanno modificato modalità, qualità e quantità dei compiti. Domanda: “Come valuti i compiti assegnati dagli insegnanti?” Quali sono le risposte degli alunni? Anche in questo ambito le risposte sono state divise in due aree: ambito del cambiamento (qualità dei compiti) il 26.2% e ambito senza cambiamenti (compiti come prima e soprattutto più compiti) il 72.4%. Interessante sottolineare che le risposte alla domanda “maggior insegnanti assegnano compiti più di prima” troviamo 25.50% nella primaria e 45.4% nella secondaria di secondo grado.

Tempo. Le risposte degli alunni/studenti in merito alla quantità di tempo dedicato per compiti e studio si collocano maggiormente su un’ora, due-tre ore (maggiormente scelta) e tre-cinque ore al giorno. Analizzando la distribuzione delle risposte tra le scuole si colgono delle differenze: la primaria con tempi tra un’ora e due/tre ore con prevalenza di quest’ultime; le secondarie di primo e di secondo grado tra un’ora, tre/cinque ore con prevalenza di due/tre ore dove si rileva una maggior utilizzo di tempo nella secondaria di primo grado.

Presentiamo alcuni dati:

  • nella scuola primaria il tempo dei compiti ha subito un considerevole aumento (il 42% afferma di avere più compiti rispetto a prima)
  • nella scuola secondaria di I grado il tempo dei compiti è sostanzialmente invariato (per il 52% degli studenti) quando non addirittura diminuito (per il 25%)
  • nella scuola secondaria di II grado il tempo il 37% degli studenti considera diminuito i tempo necessario allo studio e il 44% lo ritiene invece invariato.

Gli esiti ci propongono alcune domande: perché quasi la metà degli alunni della primaria necessitano di 2/3 ore al giorno? Per quale motivo gli alunni della secondaria di primo grado utilizzano tempi maggiori rispetto alla secondaria di secondo grado?

La qualità delle spiegazioni e delle lezioni degli insegnanti è un tema importante in quanto le risposte degli alunni e degli studenti aiutano a comprendere se c’è stato un cambiamento delle spiegazioni/lezioni.

Le domande si suddividono in tre aree: “Tutti spiegano diversamente?”, “Alcuni spiegano diversamente?”, “Tutti spiegano uguale a prima?” Gli esiti in generale indicano che sopra la metà degli alunni/studenti si sono orientati verso “Tutti spiegano uguale a prima”; la domanda inerente “Alcuni spiegano diversamente”, presenta una differenza del 10% in meno rispetto alla domanda precedente e solo 1.2% per “Tutti spiegano diversamente?”.  La distribuzione delle risposte presenta, però, differenze tra i gradi delle scuole: la primaria mantiene prevalentemente le spiegazioni/lezioni uguali come prima con il tentativo di “alcuni insegnanti” per una spiegazione diversa (21.2%); la secondaria di primo grado mantiene anch’essa una percentuale superiore alla metà del percentuale ma allo stesso tempo, attiva “alcuni insegnanti” per utilizzare modalità diverse (41.6%); la secondaria di secondo grado, invece, si discosta significativamente dalla primaria. Da sottolineare che tutte le risposte delle diverse scuole verso la domanda “Tutti spiegano diversamente?” sono assai ridotte, un esito che sottolinea la presenza di un problema che frena il cambiamento.

I contatti con gli insegnanti e i dispositivi

I contatti. Le risposte, inerenti i contatti con gli insegnanti e con quali dispositivi, permettono di cogliere la quantità degli insegnanti che attivano i contatti con gli alunni/studenti e la tipologia dei dispositivi. L’analisi, inerente i contatti, rileva il 60% dell’intervento di “tutti gli insegnanti” e il 34% solo di “alcuni insegnanti”. Analizzando la distribuzione delle risposte tra le scuole si colgono le differenze: la scuola secondaria di primo grado, infatti, ha un numero maggiore di presenze di “alcuni insegnanti” e minore di presenze in “Tutti insegnanti” (53%) rispetto alla primaria e la secondaria di secondo grado che si collocano sopra il 60%. Naturalmente è da interrogarci perché i contatti con gli alunni/studenti non siano attivati da tutti gli insegnanti. 

I dispositivi. Quali dispositivi per i contatti? La scuola e gli alunni/studenti hanno utilizzato prevalentemente le piattaforme digitali con percentuali in crescendo dalla scuola primaria alla secondaria di primo e di secondo grado. Inoltre l’utilizzo del dispositivo Whatsapp direttamente con gli allievi vieni utilizzato prevalentemente dalla secondaria di secondo grado, mentre Whatsapp tramite genitori viene preso in considerazione dalla scuola primaria. Il Registro elettronico viene scelto da un terzo in ciascun ordine di scuola.

Le frequenze degli insegnanti nelle lezioni

Le frequenze permettono di individuare la presenza degli insegnanti nelle lezioni: i dati in generale indicano che le frequenze dei docenti in tutti i giorni si attestano sul 74.4%. Analizzando la distribuzione delle risposte degli alunni/studenti tra le scuole si evidenzia che la primaria ha una bassa frequenza degli insegnanti nelle lezioni di tutti i giorni e una metà della frequenza in “Ogni tanto”, mentre la secondaria di primo e di secondo grado della si collocano tra l’ottanta e il novanta per certo in tutti i giorni. Confrontando le frequenze alle lezioni della primaria e i tempi dei compiti si può ipotizzare che la scarsità delle lezioni viene compensata dai compiti.

Il futuro

Quando si rientrerà, quale scuola vorresti? Le risposte degli alunni/studenti si dividono su tre ambiti: metà si orientano ad una scuola come prima e il resto è divisa tra una modificazione parziale e una scuola completamente diversa che non supera l’undici per cento. La distribuzione delle risposte indica trequarti della scuola primaria per la posizione tradizionale, un terzo della secondaria di primo grado e una metà della secondaria di secondo grado per una modificazione parziale.  I motivi del cambiamento di quest’ultime scuole secondarie riguardano la collaborazione, l’accoglienza, le modalità di insegnamento, la nuova strutturazione delle aule con pulizia e l’attenzione al territorio (inquinamento…).

NELL’EXTRA SCUOLA DURANTE IL LOCKDOWN

Prima della chiusura forzata i bambini della scuola primaria (6-10 anni) utilizzavano il tempo a disposizione privilegiando le attività sportive con il 30% dei rispondenti (da sempre occasioni di incontro mediato da figure adulte), per incontrare gli amici in contesti informali (19%), giocando con i videogiochi (23%) e guardando la TV (15%). Anche i preadolescenti (studenti della secondaria di II grado), privilegiavano le attività sportive (25%), gli incontri informali con gli amici (20%), i videogiochi (24%), mentre la TV risulta aver perso molto del suo appeal per essere sostituita dallo smartphone (10,5%). Gli adolescenti (secondaria di II grado), a loro volta, privilegiavano nettamente l’informalità degli incontri con gli amici (26%), le attività sportive (pur con un calo significativo al 21,5%), la musica (16%) e lo smartphone (15%), mentre TV (6,5%) e videogiochi (13%) vanno ad occupare uno spazio e un’importanza più marginali. Durante il lockdown gli adolescenti evidenziano una capacità di trasformazione delle modalità di trascorrere il medesimo tempo con gli amici, modificando lo strumento e non rinunciandovi. In effetti la grande maggioranza degli intervistati (66%) afferma di avere un contatto quotidiano con gli amici, diversamente da quanto riescono a fare preadolescenti (57,5%) e bambini (16%).

L’età incide sulla possibilità di relazioni a distanza sia quantitativamente sia qualitativamente. Risulta infatti evidente che per gli studenti della scuola primaria i contatti con gli amici sono molto più altalenanti quando non addirittura assenti. Con il crescere dell’età aumenta anche la frequenza dei contatti, quasi quotidiana, come detto, per gli studenti della Secondaria di II Grado.

Anche le modalità e gli strumenti comunicativi evidenziano differenze significative. Rispetto al tipo di canale di comunicazione gli adolescenti sembrano prediligere nettamente chat come WhatsApp (36,5%) o chat di Social Network (27,5%), mentre i più piccoli prediligono le videochiamate. Rispetto agli strumenti è interessante notare come con il crescere dell’età sembra che la videochiamata perda di fascino e sia meno utilizzata: in effetti è utilizzata dal 48% dei bambini della scuola primaria, dal 32,5% degli studenti della secondaria di I grado e dal 28,5% degli studenti della secondaria di II grado. Quasi nessuno afferma di telefonare.

Quale tempo oltre la scuola?

La chiusura della scuola è coincisa (paradossalmente?) con una privazione del tempo extrascolastico, quasi come se la sparizione di Spider Man comportasse quella di Peter Parker e non il contrario. La scuola occupa di gran lunga la maggioranza del tempo di vita degli studenti, sia in epoca di scuola “in presenza” sia in questa nuova (e transitoria) era di scuola “a distanza”. Quello che resta del tempo in casa è trascorso giocando in famiglia (13%), con i videogiochi (12%) e guardando la tv (11%) per la primaria, al telefono con gli amici (14%) e con i videogiochi (11%) per gli studenti della secondaria di I grado, al telefono con gli amici (15%) e sui social networks (11%) per gli studenti della secondaria di II grado.

Quali sono i rischi che si possono intravedere dietro l’occupazione del tempo scuola sconnesso (perché distante) dal tempo personale e sociale? Innanzitutto la possibilità che venga tolto lo spazio alle relazioni (che a scuola si sarebbero generate) e il rischio di dimenticarsi del ruolo catalitico della scuola rispetto alle relazioni, al clima e al contesto sociale.

Quale futuro? (i desiderata di studenti)

Alla domanda relativa ai desideri della città futura, al “come vorresti al tua città”, si sono evidenziati risultati molto diversi in rapporto all’età, frutto sicuramente di una consapevolezza diversa, di una storia e (forse) di un’aspettativa capace (o meno) di fare i conti con lo stato di realtà. I ragazzi della secondaria di II grado si sono disposti tra un desiderio di cambio parziale (45%) del proprio territorio e la conservazione della situazione ante-covid (45%), mentre gli studenti della secondaria di I grado (62%) e quelli della primaria (63,5%) desiderano una città/un paese esattamente uguale a quello che abitavano prima della quarantena

La reiscrizione degli alunni con disabilità.

Dove sta l’inclusione?

Roberto Medeghini. Pubblicato su Testata giornalistica Superando, 18 giugno 2020

L’emendamento al “Decreto Scuola” [Decreto Legge 22/20, convertito nella Legge 41/20, N.d.R.] inerente la reiscrizione degli alunni con disabilità nella medesima classe frequentata nel corrente anno scolastico, solleva confronti e valutazioni nel merito dell’impostazione e nella sua ricaduta sull’inclusione. Alcune letture ci presentano interventi critici: già nel maggio, il CIIS (Coordinamento italiano insegnanti di sostegno) presenta un comunicato in dissenso alla reiscrizione, evidenziando  “… una grave discriminazione nei confronti degli alunni con disabilità”. Attualmente si riscontrano interrogativi su Disabili.com sul senso dell’inclusione: “ Se pensiamo, infine, al fatto che ripetere l’anno significa peraltro dover lasciare i compagni, anche dopo il distacco forzato che già si è reso necessario per emergenza sanitaria, non possiamo esimerci dal chiederci se un provvedimento del genere possa avere alcunché di inclusivo”.

E ancora, l’intervento su queste stesse pagine dell’Osservatorio Scolastico dell’AIPD (Associa- zione Italiana Persone Down), che sottolineano: «[…] alunni con disabilità avrebbero maggior giovamento nel mantenere la continuità con i propri compagni di classe e comunque nell’avvalersi dei corsi di recupero e di apprendimento integrativo previsti per tutti gli alunni. […]. In conclusione la norma risulta doppiamente dannosa o, se si vuole, inutile». Posizioni, queste, che mettono in discussione l’emendamento, che vanno sostenute e ampliate per un cambiamento, evitando così un atteggiamento neutro o di attesa o di normalizzazione. Certamente il coronavirus ci ha messo in forte difficoltà, ma non possiamo affermare che il problema della scuola e di ciò che stiamo affrontando sia colpa del virus, soprattutto di fronte alle famiglie, agli insegnanti e ai dirigenti che hanno dato il massimo: il problema era ed è, infatti, in ciò che non è stato fatto o fatto con superficialità o in modo non adeguato o in chi si è defilato.

Se ricorriamo alla ricerca in atto[1] per la rilevazione del rapporto delle famiglie con la scuola e il tempo libero durante questo periodo faticoso, ritroviamo basso il contatto verso le famiglie da parte degli insegnanti (il 29% da alcuni insegnanti, il 2% da un solo docente e il 5% da nessun insegnante). Inoltre, il 27% delle famiglie non ritiene di essere stato aiutato in modo adeguato. Quest’ultima percentuale evidenzia problemi nell’organizzazione degli insegnanti, assenza dei dispositivi, carico eccessivo, frequente utilizzo del registro elettronico, delega ai genitori per la spiegazione ai figli, poca comunicazione e relazioni, scarsa personalizzazione. Questa breve sintesi evidenzia che le percentuali non si riferiscono solo agli alunni con disabilità, ma anche ad altri: alunni che incontrano difficoltà nei diversi livelli delle scuole, agli alunni più deboli della scuola primaria di prima e seconda classe che stavano affrontando le abilità di base col rischio di essere segnalati per una valutazione finalizzati alle certificazioni, agli alunni definiti con disturbo, agli abbandoni.

Dove sta, allora, l’inclusione?

Il senatore Davide Faraone, che ha presentato l’emendamento di cui si parla, ha affermato che si doveva intervenire per pensare un percorso diverso per gli alunni con disabilità: ma quale percorso? Quello della differenziazione tra deficit della disabilità e la normalità? Tra Bisogni Educativi Speciali e gli alunni che funzionano nell’apprendere? Se così fosse, come si può parlare di inclusione?  È evidente che, in questa prospettiva, la produzione delle differenze si basa prevalentemente sulla diversità in negativo e sulla categorizzazione, esito delle dicotomie normale/anormale, abile/disabile. L’inclusione, invece, assume modalità personali e originali senza essere definite da categorie e da criteri deficitari, supera concettualmente e culturalmente la rappresentazione del deficit come proprietà interna alla persona, orientando l’attenzione sul presupposto che tutte le persone hanno una loro visione del mondo, modalità e strategie originali e differenti per viverci senza essere definite da categorie e da criteri deficitari.

Questo sfondo del deficit coinvolge ancora un’altra frase di Davide Faraone che è in relazione alla precedente: la didattica a distanza era impossibile soprattutto per gli alunni con disabilità. Certamente ci possono essere delle difficoltà come anche in altri alunni/studenti, ma il significato è che gli alunni con disabilità non hanno capacità di adattarsi. Allora come è possibile parlare di inclusione se non è stato rovesciato il significato, sottolineando che le modalità della didattica a distanza dovevano modificarsi in modo da includere tutti gli alunni/studenti?   È evidente che, oltre alla differenza deficitaria, la reiscrizione degli alunni con disabilità nella medesima classe deriva anche dalla fissità dei contesti scolastici. Infatti, mentre l’idea di condizione deficitaria della persona con disabilità è prevalente, l’incidenza dei contesti risulta secondaria: ne sono esempio le modalità per la didattica a distanza come se gli insegnanti fossero nell’aula e come gestissero i tempi e i carichi di lavoro come prima. In questa prospettiva le forme organizzative e l’insegnamento-apprendimento sono considerati come elementi non modificabili: richiedono, invece, l’adattamento, cioè l’adeguarsi a ciò che è stato proposto, dimenticando il contesto, il clima di classe e le potenzialità degli alunni/studenti.  Seguendo le riflessioni, la scelta di previlegiare i contenuti non è stata e non è inclusiva: lo è, invece, lo star bene degli alunni/studenti negli ambienti di apprendimento, di relazioni e nella collaborazione con le famiglie. La stessa cosa avviene nella didattica per la prevalenza dell’omogeneità, la delega all’insegnante specializzato per il sostegno col rischio della solitudine dell’alunno/studente, la diversità dei contenuti: diversamente l’inclusione richiede la cooperazione tra alunni con piccoli gruppi eterogenei anche con video, continuità tra alunni, relazioni e contatti tramite i dispositivi, contenuti ed operazioni concreti, gestione del carico cognitivo e di lavoro, modalità dei tempi e personalizzazioni che non vadano nella differenziazione, ma tali da includere tutte le differenze. Come è stato sottolineato in precedenza, il superamento delle reiscrizioni lo ritroviamo nel superare gli ostacoli all’apprendimento, nel cambiamento, nella continuità con i propri compagni di classe e nell’avvalersi delle iniziative, dei corsi di apprendimento integrativo previsti per tutti gli alunni. Certo, si dovrebbe discutere anche il rapporto tra reiscrizione degli alunni con disabilità alla medesima classe e la bocciatura come opportunità, ma non ha significato ed è inutile perché sappiamo che la bocciatura è un dispositivo di controllo, di selezione e di potere e, allo stesso tempo, una sconfitta della scuola.

[1] Ricerca ideata e condotta da Roberto Medeghini, Giuseppe Vadalà e Fabio Bocci del Gruppo di Ricerca Inclusione e Disability Studies (GRIDS), appartenente al Laboratorio di Ricerca per lo Sviluppo dell’Inclusione Scolastica e Sociale del Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre. L’obiettivo era la rilevazione del rapporto di alunni/studenti e delle famiglie con la scuola e il tempo libero durante questo periodo faticoso.