Essere disabili due volte

Di Amartya K. Sen – Inserto domenicale Sole 24 Ore – 4 settembre 2005 – p.36

I disabili fisici o mentali sono stati trascurati dalle principali scuole di pensiero, il che ha portato all’inazione invece che a interventi pubblici, e persino a sopprimere il senso di inadeguatezza suscitato di solito da una mancata assunzione di responsabilità sociale. È utile capire il perché di questa situazione  e parte del mio intervento avrà la forma di un’indagine, anche se più filosofica che poliziesca.

Qualunque teoria dell’etica sociale, e della giustizia in particolare, deve scegliere una “base informativa” per così dire, ovvero su quali aspetti del mondo concentrarsi nel giudicare il successo e il fallimento di una società, nel valutarne la giustizia e l’ingiustizia. In questo contesto è importante soprattutto avere un punto di vista su come valutare il vantaggio di un individuo. Prendiamo, per esempio, tre importanti teorie della valutazione e della giustizia sociale.

La prima è l’utilitarismo, propugnato da Jeremy Bentham e altri, che si concentra sulla felicità o sul piacere personale (o in un’altra interpretazione sulla “utilità”) quale mezzo migliore per valutare il vantaggio o lo svantaggio di un individuo.

Un secondo approccio, che si ritrova in molti esercizi pratici di economia (e nelle teorie del benessere economico), valuta il vantaggio del singolo in termini di reddito e di ricchezza. Se per l’utilitarismo la base è l’utilità, qui è l’opulenza e le informazioni di cui tener conto sono dati quali il reddito globale, da un lato, e la distribuzione del reddito dall’altro.

Una terza teoria è dovuta al massimo filosofo politico del nostro tempo, John Rawls. Essa richiede un’attenzione prioritaria alla libertà, ma va oltre:  nel valutare la giustizia  distributiva, richiede che il vantaggio sia misurato in termini di “beni primari” a disposizione di ciascuno. Essi costituiscono una categoria generale di risorse o di mezzi che facilitano il raggiungimento degli scopi individuali e, secondo Rawls, devono comprendere «diritti, libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi sociali del  rispetto di se stessi».

È facile dimostrare che nessuna  delle prevalenti teorie dell’etica e della giustizia prendono davvero sul serio la questione dell’equità verso i disabili. Soffermiamoci sulla teoria basata sull’opulenza, così spesso usata dagli economisti che si concentrano sulla distribuzione del reddito, che tende anche a dominare il dibattito nei mezzi di comunicazione e nell’opinione pubblica. Il problema fondamentale di tale approccio era già stato espresso con grande chiarezza 2300 anni fa da Aristotele, nell’Etica nicomachea: «In tutta evidenza la ricchezza non è il bene ricercato: infatti essa è soltanto una cosa utile e un mezzo in vista di altro». La ricchezza o il reddito non ha valore in sé. Un disabile grave, anche se dispone di maggior ricchezza o reddito di una persona in buona salute, non necessariamente va giudicato come più avvantaggiato. Dobbiamo esaminare la sua capacità generale di vivere la vita che ha motivo di desiderare e ciò esige di tener conto delle sue caratteristiche personali (comprese le eventuali disabilità) oltre che del reddito e di altre risorse, perché tutto ciò influisce sulle sue capacità concrete. Farebbe confusione tra i fini e i mezzi una teoria della giustizia che si fondasse sulle basi informative dell’opulenza e della distribuzione del reddito, le quali sono cose che ricerchiamo «in vista di altro», per dirla con Aristotele.

È molto importante distinguere due tipi di handicap che tendono ad accompagnare la disabilità, e che potremmo chiamare “handicap del guadagno” e “handicap della conversione“. Se per un disabile è più difficile trovare un posto di lavoro e conservarlo, se riceve un minor  compenso, tale handicap del guadagno si rifletterà nella teoria basata sull’opulenza. Ma è soltanto una parte del problema. Per fare le stesse cose di una persona in buona  salute, un disabile può aver bisogno di un reddito maggiore.

Per spostarsi, chi è rimasto invalido per un incidente o una malattia, ha forse bisogno di assistenza o di una protesi o di entrambe. L’handicap della conversione si riferisce al  suo svantaggio nel convertire il denaro in una vita decente. È un punto essenziale per capire i limiti di una concezione della povertà basata sul reddito. Intesa come un’inadeguatezza delle capacità fondamentali di una persona, la povertà è collegata al basso reddito, ma non solo. A parità di reddito, un disabile può essere in grado di fare meno cose e gravemente privato di capacità alle quali, a ragione, attribuisce valore. Proprio il motivo che gli rende più difficile guadagnare un reddito, gli rende anche più difficile convertire il reddito nella libertà di vivere decentemente. Posso illustrare l’incidenza dell’handicap della conversione con alcuni dati sui tassi di povertà nel Regno Unito, raccolti da Wiebke Kuklys in un’illuminante tesi completata di recente all’Università di Cambridge (è stata una immane tragedia che Wiebke sia morta così prematuramente, subito dopo aver terminato il suo Ph.D.; la sua tesi è stata appena pubblicata da Sprinter con il titolo: Amartya Sen’s Capability Approach – Theoretical Insights and Empirical Applications Series: Studies in Choice and Welfare).

Dopo aver definito la soglia di povertà come corrispondente al 60% del reddito medio nazionale, Kuklys ha trovato che il 17,9% delle persone vive in famiglie con un reddito inferiore. Ma diventano il 23,1% se un membro della famiglia è disabile. Questo divario di 5 punti percentuali dovrebbe riflettere in gran parte l’handicap del reddito associato alla disabilità e alle cure che necessita. Se però si tiene conto dell’handicap della conversione — e del bisogno di un reddito maggiore per rimediare agli svantaggi — nelle famiglie con membri disabili, la proporzione delle persone che vivono sotto la soglia di povertà passa al 47,4%, una differenza di oltre 20 punti percentuali rispetto al 17,9% calcolato sull’insieme della popolazione.

In altre parole, di questi 20 punti di differenza un quarto può essere attribuito all’handicap del reddito e tre quarti all’handicap della conversione. Rispetto ai Paesi in via di sviluppo, nel Regno Unito l’incidenza della disabilità è bassa. Anche tenendo conto dell’handicap della conversione, l’impatto globale sull’intera popolazione è relativamente modesto: dai dati di Wiebke Kuklys, l’incidenza media della povertà passa dal 17,9 al 19,8 per cento. Eppure si tratta di un aumento niente affatto trascurabile e sarebbe ben peggiore laddove la disabilità è più diffusa, come infatti avviene nella maggioranza dei Paesi in via di sviluppo. Se in Gran Bretagna il tasso di povertà sale soltanto di due punti percentuali, la maggior sofferenza delle famiglie britanniche con membri disabili si rispecchia nel fatto che in tale gruppo, l’incidenza della povertà aggiustata in base alle capacità supera di oltre il 240% quella dell’insieme della popolazione. Quando le misure della povertà si basano sul reddito e ignorano l’handicap della conversione, danno una visione enormemente distorta del livello di povertà delle famiglie con uno o più membri disabili.

Inoltre alcuni dei fattori essenziali per una vita decente non vengono dal reddito personale, ma da organismi per la pubblica istruzione e da altre strutture della società civile. In molti Paesi in via di sviluppo i bambini disabili, per esempio sordi o costretti su una sedia a rotelle, nonhanno praticamente accesso alle scuole elementari che sono prive delle attrezzature necessarie e di insegnanti con un’apposita formazione. Si stima che fra i 100 milioni e più bambini del mondo che non vanno a scuola, 40 milioni circa sono in qualche modo disabili. Perciò l’handicap della conversione riguarda non soltanto la conversione del reddito personale in una vita decente, ma anche la conversione di strutture sociali in opportunità davvero fruibili. Va anche notata l’esistenza di atteggiamenti discriminatori verso i disabili fisici o mentali, un fatto concreto che impone loro un handicap della conversione. E a tale avversità, si aggiunge la possibilità di maltrattamenti: è ampiamente documentato che in svariate situazioni i disabili sono a maggior rischio di infezioni da Hiv o da altri patogeni in seguito a violenza fisica e sessuale, un caso estremo e tragico di handicap della conversione.

Se si basa sul solo handicap del guadagno, insomma, una teoria della giustizia non è in grado di misurarsi con le più fondamentali esigenze di giustizia. (Traduzione di Sylvie Coyaud)