Lennard J. Davis, insegnante presso l’Università dell’Illinois
di Chicago, è docente di Disability and Human Development presso la School of Applied Health Sciences e di Medical Education presso il College of Medicine. È autore di numerosi volumi sui Disability Studies e scrive regolarmente per «The Cronicle of Higher Education», «The Huffington Post» e «Psychology Today».
( Intervista ad opera di Enrico Valtellina, Pubblicato sulla rivista «Italian Journal of Disability Studies», vol. 2, n. 1, pp. 31-46., marzo 2014)
Tra gli slogan egemoni nel mondo accademico nessuno ricorre in modo insistente come “internazionalizzazione”. Invero ci sono settori dell’insegnamento universitario assolutamente refrattari al confronto con il resto del mondo, caso eclatante è la ricerca culturale sulla disabilità, i Disability studies, della cui produzione teorica non è giunta alcuna eco nel nostro paese (si è dovuto attendere quest’anno perché comparisse il primo volume collettivo a tema, Disability studies: Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza, edito da Erickson). Da almeno quattro decenni, dal tempo dell’elaborazione del modello sociale inglese della disabilità, nato in opposizione al modello medico nei primi anni settanta ad opera di ricercatori con disabilità fisiche, la contestualizzazione in termini emancipativi della disabilità è tra gli ambiti più interessanti delle scienze sociali. A testimoniarne la vitalità è il livello, spesso assolutamente eccellente, della produzione, la vasta differenziazione tra gli approcci teorici, l’ibridazione funzionale con altri piani di ricerca, antropologia, sociologia, storia culturale, ma soprattutto l’avere mantenuto un contatto stretto con le urgenze che ne avevano motivato la nascita, molti autori sono ad un tempo attivisti per i diritti delle persone disabili e quasi sempre interpellati personalmente dai temi di cui si occupano. Non vogliamo qui fare questione delle ragioni dell’autoreferenzialità del discorso accademico nazionale sulla disabilità, limitato alla disciplina dal nome passédi Pedagogia speciale e alla logica medico-riabilitativa e integrativa, ma proporre spunti per aprire lo spazio a un confronto, entrando in dialogo con uno dei rappresentanti più interessanti della disciplina, Lennard Davis, docente di letteratura inglese e autore di testi di straordinario livello sullo studio culturale della disabilità come Enforcing normalcy: Disability, deafness and the body e Bending over backwards: Disability, dismodernism, and other difficult positions, nonché curatore di un Disability studies reader, antologia tematica di riferimento che raccoglie articoli degli autori di punta della disciplina, giunta quest’anno alla sua quarta versione.
Q: Professor Davis, in un suo intervento (The end of identity politics and the beginning of dismodernism: On disability as an unstable category, Disability studies reader, seconda edizione), ripreso in Bending over backwards, lei prospetta una terza fase nell’evoluzione dell’interpretazione culturale della disabilità. La prima corrisponde al modello sociale inglese, elaborato negli anni settanta e ottanta da Paul Hunt, Mike Oliver e Vic Finkelstein, centrato sulla partizione fondamentale tra Impairment e Disability, di cui il primo termine è la condizione in cui una persona si trova, e disabilità la condizione di deprivazione (in termini di risorse, possibilità di accesso ai beni sociali, negazione di diritti essenziali) che la persona subisce in ragione di un’organizzazione abilista del sociale, la dimensione politica della proposta del modello sociale muove verso l’elisione delle barriere all’accesso, pertanto della disabilità. Negli anni novanta e tanto più nel nuovo secolo, ed è il secondo momento, il discorso dei disability studies, ormai saldamente affermato in università (quantomeno nel resto del mondo), affina i propri strumenti ed entra in dialogo con altre discipline legate al minority model, disabilità si aggiunge alla consolidata serie identitaria di genere, razza e classe. Cambiano i referenti teorici, Foucault al posto di Marx, e viene sviluppata una critica serrata al modello sociale (Tom Shakespeare in particolare mi sembra rappresenti in modo compiuto questa svolta). La sua proposta, centrata sulla nozione di dismodernità, mi sembra che ad un tempo sussuma e trascenda il lavoro teorico precedente, riconfigurando il discorso identitario e in qualche modo la nozione stessa di disabilità. Può illustrarci in sintesi come venga a ridefinirsi il discorso dei Disability studies, in particolare in riguardo alle dinamiche identitarie, alla luce della sua elaborazione?
A:… Penso che si possano individuare diverse correnti nei Disability studies e nell’attivismo delle persone disabili. La prima fase è stata l’attivismo sociale negli Stati Uniti e nel Regno Unito, principalmente come rivendicazione dei diritti civili per le persone con disabilità. Ciò comportava inoltre un’attenzione ai temi della non-discriminazione, della vita indipendente [indipendent living], dell’accesso universale e simili. Al fine di rendere praticabili queste rivendicazioni, i teorici della disabilità e gli attivisti hanno dovuto cercare i modelli che si adattassero al momento. Il modello più ovvio è stato il movimento dei diritti civili per gli afro-americani e le persone di colore, cosìcome quello delle donne, affermatisi negli anni 1960 e 1970. Questo si opponeva al modello dell’assistenzialismo [welfare] e ai modelli medici, che a loro volta avevano soppiantato o si erano affiancati al modello caritativo dell’epoca precedente.
Nel Regno Unito il modello dell’oppressione deve meno al movimento per i diritti civili, perché la questione della razza si è posta con un’urgenza e particolare negli Stati Uniti, e più a un modello marxista, dato che il Regno Unito in epoca pre-Thatcher perseguiva principi di governo sociale [socialized government]. Il modello marxista poteva essere facilmente trasposto dai lavoratori sfruttati in un sistema capitalista ad una critica economica del capitalismo dal punto di vista della disabilità. Le persone sono state disabilitate [disabled] dall’oppressione politica e da ragioni economiche.
In entrambi i casi – il movimento dei diritti civili e la critica marxista – era presente un forte senso di identità, e potrei dire di rivendicazione identitaria. Se gli oppressori ti definiscono in un modo, allora hai bisogno di definire te stesso in un altro modo. Negli Stati Uniti c’è stato un movimento di disability pride che ha cercato di imitare il movimento del Black pride. Nel Regno Unito c’è stato un senso di identità politico e sociale che si è sviluppato come una forza di opposizione nella cultura accademica e nell’attivismo. Ma il concetto chiave era quello di “identità”disabile. Ciò si affiancava all’affermatività di vari altri movimenti identitari dell’epoca.
Al contempo, c’è stata la messa in questione postmodernista delle grandi categorie totalizzanti, e dell’idea di definizioni monolitiche. Il tema dell’identità disabile doveva necessariamente rientrare nel campo di tale critica. Per definizione, il termine disabilità copre un vasto spettro di condizioni, dai problemi di mobilità all’obesità, dalle malattie croniche alla deturpazione del volto. Categorie più problematiche come transgender sollevano la questione della differenza – chi è transgender, è disabile? La diagnosi di disturbo dismorfico deve essere applicata a persone che stanno passando da un gender ad un altro? L’autismo è una malattia o un modo differente di percepire il mondo?
Collegato a ciò è il passaggio da un uso egemonico del concetto di “normalità” per controllare grandi gruppi di persone al concetto di “diversità”. Diversità è forse la nuova forma di controllo propria al regime neoliberista. Da questa prospettiva non vi sono gruppi “esclusi” [out], dal momento che tutti i gruppi si collocano sotto il vasto tendone della diversità. Quindi, se non è più normale essere una persona bianca che una persona di colore, o più normale essere un europeo piuttosto che un arabo, allora non può essere più normale fare parte di alcun gruppo particolare.
Eppure, la parola “normale” è ancora applicata alle persone con disabilità – un fatto interessante data la convinzione dilagante nella diversità. Ciò che questo atavismo ci mostra è che “normale” è il residuo di quello che ho chiamato “la fine del normale”. Quello che ci dice è che i vecchi modelli per la definizione della disabilità basati sul modello sociale non sono più adeguati, dal momento che l’argomento del modello sociale è che c’è un parallelismo assoluto tra tutti i gruppi oppressi – tutti sono disabilitati per mancanza di accesso e di risorse. Ma ora sembra che i disabili siano i soli a rimanere definiti come anormali.
Non ho modo di spiegare ora perché questo avvenga, ma il mio nuovo libro The end of normal: Identity in a biocultural era che sarà pubblicato dalla University of Michigan Press nell’autunno del 2013 affronterà questi temi in modo più specifico. Quello che posso dire in questa sede è che ci stiamo muovendo verso una critica della soggettivitàneoliberale che rivela di più sulla disabilità del vecchio modello basato sull’oppressione razziale e la mancanza di diritti civili. Non si tratta di sostenere che la disuguaglianza economica non sia più rilevante: è chiaro che lo è. Ma l’idea di soggettività neoliberale che pone l’accento sui diritti umani e l’inclusione nell’economia del consumo, definendoci in base alla nostra capacità di acquistare e usare prodotti di nicchia, non fa praticamente nulla per parlare della situazione particolare delle persone disabili. Una persona con disabilità, anche se può disporre di tutti i diritti umani come chiunque altro e può avere abbastanza soldi per partecipare a pieno titolo al capitalismo consumista, sarà comunque oggetto di varie forme di esclusione, di controllo, di privazione dei diritti civili e simili.
Qualsiasi lavoro futuro dei Disability studies, pertanto, dovrà confrontarsi in modo diretto con questi problemi. Nessuna forma di costruzionismo sociale o disability pride sarà in grado di fornire analisi e la soluzioni per i problemi presentati dalla disabilità nel 21° secolo.
Q: Per quanto riguarda l’ambito dei Deaf Studies, di cui in Italia mancano sia una produzione sia una riflessione, le chiedo se vi legge le stesse fasi descritte per l’evoluzione dell’interpretazione culturale della disabilità oppure se individua delle specificità (o problematicità) che occorre mettere in luce, sia in riferimento al tema dell’identità sia in riferimento alle questioni che riguardano le lingue dei segni. Quale direzione di sviluppo intravede, se lo intravede, per i Deaf Studies?
A: Credo che i Deaf studies si collochino su un terreno abbastanza differente rispetto ai disability studies. Malgrado le persone Sorde vengano considerate disabili e beneficino di leggi approvate per le persone con disabilità, vanno evidenziate alcune differenze sostanziali.
In primo luogo, a differenza delle persone con disabilità nel passato, le persone sorde sono state tradizionalmente parte di una comunità preesistente. Anche se la maggioranza delle persone Sorde sono nate in famiglie udenti, ben presto queste compresero (così come i loro genitori), quanto fosse preferibile per il bambino sordo andare in una scuola speciale, spesso residenziale, in cui potesse apprendere la lingua dei segni e integrarsi nella più vasta comunità Deaf. In passato, prima della scolarizzazione istituzionale, le persone Sorde si riunivano nelle città e sviluppavano i propri linguaggi gestuali. In quanto parte di questa comunità condividevano non solo una lingua, ma una cultura, una storia e un senso di appartenenza. Ciò fa la differenza rispetto alla storia degli altri gruppi delle persone con disabilità.
In secondo luogo, molte persone Sorde non si considerano disabili, piuttosto si pensano come minoranza linguistica all’interno di una cultura dominante. La loro argomentazione è che possono fare qualsiasi cosa un “normale”cittadino possa fare, pertanto non sono disabili. Alla luce di tale spiegazione, il modello sociale si può invocare, ma piùnel senso in cui sarebbe applicabile ai cittadini di lingua spagnola degli Stati Uniti, ad esempio.
Terzo discrimine, i Deaf studies tendono a pertanto a sottolineare le questioni relative allo specifico della cultura Deaf piuttosto che la natura disabilitante della società in generale. Un fatto che però sta mutando questa attenzione culturale centrata sulla comunità Deaf è lo sviluppo e la diffusione di impianti cocleari. Giacché il 95 per cento dei bambini Sordi nasce in famiglie udenti, e visto che la sordità è considerata un problema medico da chi è al di fuori della comunità Deaf, i genitori dei bambini sordi di recente diagnosi vengono convinti ad impiantare i loro figli molto piccoli. In alcuni paesi come la Svezia, i bambini hanno diritto ad impianti cocleari e al contempo alla formazione alla lingua dei segni. Ma nella maggior parte dei paesi, compresi gli Stati Uniti, ai bambini sordi viene vietato (o fortemente sconsigliato) di imparare e usare il linguaggio dei segni. L’argomento è che è che l’utilizzo della lingua gestuale diminuisce l’efficacia dell’impianto cocleare in quanto il bambino tenderà a concentrarsi sul visivo piuttosto che sull’uditivo. La reazione della comunità Deaf spazia da una forte opposizione agli impianti cocleari all’accettazione con l’avvertenza che la lingua dei segni non dovrebbe essere vietata. Probabilmente è vero che se una gran parte dei giovani Sordi vengono impiantati e non viene consentito di imparare la lingua dei segni, la cultura Deaf inizierà a scomparire. Attualmente questo è un problema urgente per i Deaf studies.
Q: Avendo lei curato quattro successive edizioni del reader di riferimento sui Disability studies, può guardare alla loro evoluzione da una posizione privilegiata, per concludere il nostro scambio, quali ritiene siano gli ambiti tematici e gli autori più promettenti per gli sviluppi futuri della disciplina?
A: Credo che la prefazione alla quarta edizione del Disability studies reader possa contenere una buona risposta alla sua domanda:
Prefazione alla quarta edizione
Questa quarta edizione del Disability Studies Reader apre nuovi orizzonti tematizzando concettaualizzazioni della disabilità dalle prospettive globali, transgender, homonational e postumane. Rimane, naturalmente, molto sulle disabilità fisiche, ma il nuovo reader esplora questioni relative al dolore, alle disabilità mentali e alle disabilità invisibili – presentando in effetti una più ampia varietà dell’esperienza fisica e mentale. In più ci sono nuove storie sulla dimensione legale, sociale, e culturale, per offrire un quadro più ampio che mai sulle disabilità.
In ciascuna delle tre precedenti edizioni ho iniziato la prefazione prendendo il polso del settore dei disability studies di al momento della pubblicazione. Nella prima edizione lamentavo la difficoltà dei disability studies nel riuscire a catalizzare attenzione. Nel secondo ho colto Disability Studies nella loro affermazione. Nella terza edizione ho scritto “i Disability Studies sono ormai parte del mondo accademico e della società civile, notando che anche Barack Obama aveva incluso le persone con disabilità nel suo discorso di insediamento. Ora, alla quarta edizione, posso dire che la disabilità non è solo accettata, ma anche è diventata un termine critico importante nelle discussioni sull’essere, nel postumanesimo, e nella teoria politica, nella teoria transgender, in filosofia e in molti altri ambiti tematici. In una recente conferenza che ho tenuto presso il CUNY Graduate Center, uno studente di dottorato ha posto la domanda: “Perché i Disability Studies sono così hot in questo momento?” Era una domanda che non avrei mai sentito dieci anni fa. Mentre cominciamo a pensare attraverso le complessità dell’essere e della post-identità, la disabilità è diventata un aspetto quasi necessario alla comprensione del rapporto uomo-animale, delle questioni di interdipendenza e indipendenza così come dei temi relativi alla costruzione o alla materialità del sesso, del corpo e della sessualità.
Forse un indicatore della diffusione dei Disability Studies è l’accorciamento asintotico del tempo tra le edizioni (basate sulla valutazione di Routledge della vitalità del campo). Tra la prima e la seconda edizione sono trascorsi dieci anni, tra la seconda e la terza, quattro, e tra la terza e la quarta solo tre anni. Evidentemente sempre più persone leggono questo testo in quanto il campo dei disability studies diventa sempre più essenziale a sempre più campi di studio.
Mi sono sentito di sostituire alcuni ottimi saggi in buona coscienza, con la sensazione che gli autori rimossi potrebbero ricomparire in prossime edizioni, e a ciò si affianca il piacere di avere dato spazio a molti nuovi e piùgiovani studiosi, che si occupano di questioni particolarmente attuali. Il Disability Studies Reader ha questo vantaggio rispetto a molti altri readers, in quanto è in grado di rimanere aggiornato e sulla breccia delle questioni, con nuove edizioni che appaiono regolarmente.
La sezione storica contiene un nuovo saggio di Douglas Baynton che collega la discriminazione contro le disabilità a questioni intorno ai dibattiti sulle questioni della cittadinanza nel 19° secolo. In questa sezione si trova inoltre un’anticipazione del libro tuttora inedito del compianto Paul Longmore sul telethon e l’uso dei bambini nei manifesti. Un altro saggio di Elizabeth Emens, professore di diritto Columbia University, esamina il modo in cui le piùrecenti revisioni dell’Americans with Disabilities Act potrebbero risolversi nella pratica.
La sezione politica aggiunge tre saggi. Una panoramica sulle questioni relative a globalizzazione e disabilità di Stuart Murray, e Claire Barker sviluppa ulteriormente la dimensione globale del libro, secondo le richieste di molti lettori. Michael Bérubé scrive sul difficile tema della genetica, dei test prenatali e della selezione degli embrioni per eliminare alcune disabilità, e collega questo dibattito alla questione se una società democratica possa tollerare alcune delle possibili decisioni. La nozione di detenzione per le persone con disabilità viene discussa da Liat Ben-Moshe in confronto e collegamento con il sistema carcerario nel suo complesso.
Nella sezione ripensare la teoria, il Reader comprende il lavoro di Jasbir Pual , il cui lavoro eccellente sull’omonazionalismo [homonationalism] e il terrorismo, ora si volge alla disabilità in quanto sviluppa l’idea della disabilità nei termini di una matrice di capacità e debolezze. Il contributo di H. Dirksen Bauman e Joseph J. Murray guarda la perdita dell’udito non come un fatto negativo, ma in termini di “guadagno sordo”, un concetto che ci permette di vedere la disabilità come un modo positivo di essere-nel -mondo .
Nella sezione sulle identità, il Reader offre una selezione del libro molto popolare di Margaret Price Mad at school che, attraverso ricordi e analisi esplora i temi relativi all’istruzione di persone con disabilità mentale. Una analisi storica e sociale dei Black Disability Studies di Josh Lukin risponde alla costante richiesta di materiali su Blackness e disabilità, questa volta fornendo una storia sociale degli attivisti neri durante il Movimento per la Vita Indipendente. Ellen Samuels apre alcune nuove aree tematiche nel Reader discutendo questioni relative al coming-out nei casi di disabilità invisibili. Nella stessa sezione, Nirmala Erevelles e Andrea Minear indagano le complesse questioni delle intersezioni tra razza, classe, genere e disabilità .
Nelle sezioni sulla cultura, un nuovo saggio di Elizabeth Depoy e Stephen Gilson guarda al modo in cui la disabilità viene marchiata. Abbiamo anche incluso, per la prima volta, le composizioni poetiche di Jim Ferris.
Questo è anche il primo Disability Studies Reader che sarà disponibile in formato elettronico. Nella precedente edizione ho lamentato la difficoltà di fornire un accesso più facile al lavoro a causa del costo di fare business nell’era elettronica. Questa volta Routledge si è impegnata a rendere l’edizione disponibile in formato e-reader. Ovviamente il vantaggio sarà che molte più persone con disabilità saranno in grado di rapportarsi al libro in questa versione piùflessibile e accessibile . Sono particolarmente soddisfatto di questo progresso, perché il compianto Paul Longmore aveva insistito per una versione elettronica del Disability Studies Reader, e sono doppiamente felice che il volume saràaccessibile in questo modo e che vi appaia anche un saggio di Longmore di su telethon. […]
Questa edizione presenta, sulla base dei suggerimenti ricevuti e del mio punto di vista, più saggi relativi alla dimensione globale. Abbiamo più contributi dal Regno Unito e di più interventi su diritto, razza, politiche sociali, cultura visiva, disabilità cognitive e affettive, postumanesimo e sulle riformulazioni di sesso e genere . Contiene nuove sfide alle saggezze consolidate, mentre il campo di ricerca si evolve, e ulteriori tentativi di ripensare alcuni dei concetti fondanti della disabilità, mantenendo al contempo quello che nel lavoro teorico continua a funzionare.
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Possiamo solo auspicare che un orizzonte di ricerca tanto vivo e articolato trovi ascolto in Italia, che il mondo editoriale nostrano cominci a promuoverlo, e ringraziare Lennard Davis per la passione e la competenza che mette a disposizione dei Disability studies, e per la gentilezza estrema con cui ha concesso questa intervista.