Questo contributo prende spunto dalla ricerca promossa dall’Associazione Disabili Bergamaschi (ADB) che ha indagato il rapporto fra disabilità acquisita e lavoro
Roberto Medeghini, Docente di Pedagogia Speciale Scienze dell’educazione Università degli studi di Bergamo. 2010
Le pratiche discorsive presenti in educazione e nel sociale molto spesso utilizzano riferimenti categoriali che producono un occultamento delle differenze. Ciò è maggiormente ricorrente quando ci si rivolge alla disabilità, una categorizzazione che rimanda ad un universo astratto dove percezioni ed immagini ispirano linguaggi e discorsi orfani delle identità.
Tali processi sono stati oggetto di analisi da parte di diversi studiosi fra i quali M.Mercier (1999) che, attraverso ricerche sulle rappresentazioni sociali della disabilità nella società occidentale, ha evidenziato la presenza di specifiche immagini sociali e le differenti percezioni fra la disabilità fisica e quella mentale. In questa ricerca l’immagine e la rappresentazione sociale vengono utilizzate per spiegare processi differenti che da una parte descrivono un processo cognitivo individuale (immagine) e dall’altra evidenziano una struttura socialmente costruita dai modi di conoscenza generici in seno ad una società che a sua volta determina le attitudini, i comportamenti, le opinioni a proposito degli individui, della società e della natura. L’interesse di questa ricerca sta nell’emersione di cinque categorie di immagine e di altrettante rappresentazioni sociali:
l’immagine semiologica che attribuisce ai disabili fisici l’immagine di un corpo colpito, impotente ed incapace di fare, mentre assegna alla disabilità mentale l’immagine del mongolismo, dell’autismo e della follia. In entrambi i casi l’accento è posto sul deficit inteso come mancanza, patologia, negatività e l’idea che viene veicolata è la negazione della potenzialità, della qualità e delle possibilità di sviluppo delle condizioni fisiche e mentali.
Emerge in modo netto l’immagine della figura da sostenere che attribuisce ad entrambe le tipologie di disabilità immagini infantilizzate, come bambini incapaci di essere autonomi e d’inserirsi con le loro forze nella vita sociale.
L’immagine secondaria traduce gli effetti che le immagini semiologiche producono sulla disabilità. Per la persona con disabilità motoria l’accento è messo sull’assistenza tecnica, su oggetti riparatori e compensatori, mentre la persona con disabilità mentale rinvia ad un’immagine secondaria di mondo chiuso e chiusura affettiva. Non c’è un’immagine secondaria di ritardo scolastico per la persona con deficit fisico, mentre questa immagine è pregnante per la persona con disabilità mentale.
L’immagine affettiva riflette invece la maniera in cui è tradotto il vissuto affettivo della persona disabile. La persona fisicamente disabile trasmette un’immagine di voglia di vivere, di volontà di adattarsi, di capacità di riscatto, mentre la disabilità mentale rinvia ad una condizione di ripiego su di sé, di chiusura sia verso l’interno che verso l’esterno.
Infine l’immagine relazionale sottende le relazioni effettive che gli altri hanno con le persone disabili. Anche in questo caso si ripresentano percezioni differenti al variare della tipologia del deficit: infatti nei confronti della persona con deficit fisico prevale un sentimento di inadeguatezza, mentre per la persona con disabilità mentale domina la paura del rifiuto.
Le immagini ora presentate condividono una visione deficitaria della disabilità, ma con una forza disabilitante diversa: infatti le immagini di svantaggio, di disadattamento e di timore predominano maggiormente nella percezione delle persone con deficit mentale, mentre nel deficit fisico sono attenuate dall’idea che la persona ha il desiderio di vivere e di essere autonoma. Le immagini precedenti non si escludono a vicenda, ma si raggruppano, coesistono e si articolano per formare delle rappresentazioni sociali che sono esse stesse legate ai modelli culturali ed al linguaggio bio-medico della disabilità. Infatti, come si può osservare, esse sono guidate da un’epistemologia abilista che produce categorizzazioni attraverso la dicotomia abile/non abile, costringendo le storie e le vite delle persone ad omogeneizzarsi e a perdere la singolarità nelle classificazioni.
Come recuperarle? Come dare loro voce? Non è certo facile visti i filtri culturali, le pratiche consolidate, il linguaggio e i discorsi che in questi anni si sono costruiti attorno al concetto di «disabilità» compresi i tentativi di trovare altre parole e termini senza che fosse messa in discussione l’epistemologia di fondo.
Forse un percorso di emersione può essere possibile recuperando non solo le biografie e le storie ma anche ponendo in rilievo una condizione sociale comune che non è frutto di un deficit, ma di processi disabilitanti: voci delle persone con disabilità e condizione disabilitata possono così rappresentare un’uscita dai processi di occultamento e di esclusione.
Questi ultimi non sono però da intendersi solo come semplici costrutti teorici, ma come pratiche che si articolano nelle pieghe della quotidianità, nel vivere sociale e nelle sue interazioni attraverso sistemi che comprendono la produzione economica con il lavoro, il linguaggio e i discorsi con le loro regole, la formazione di una famiglia, la partecipazione, il gioco, l’istruzione; sistemi questi che punteggiano il vivere e che per questo sono in grado di produrre stigmi:
«… Dopo tutto, lo scacco professionale, il fallimento nella realizzazione, l’incapacità di occupare il proprio statuto sociale è ai nostri occhi, lo stigma primo e fondamentale […] il primo indizio di fragilità…» (Foucault, 1978. P.71)[1].
I processi di esclusione e gli stigmi ad essi associati si producono e si esercitano attraverso un sistema di pratiche, discorsive e non, che investono il corpo[2] dei singoli individui per renderlo socialmente compatibile ed economicamente produttivo[3]. Il corpo diventa così il terreno su cui si concretizza e si pratica il principio normativo della dinamicità e dell’efficienza e su cui, di conseguenza, si produce socialmente il costrutto concettuale di fragilità.
In questo modo, l’abilismo, attraverso categorie normative, non solo prefigura un’idea di corpo, ma definisce anche le coordinate di spazio e di tempo in cui questo corpo vive; ed è attraverso l’associazione di queste componenti che si rende visibile il funzionamento o l’inabilità.
L’intreccio qui evidenziato pervade così i diversi contesti e li caratterizza in termini di produttività: la scuola, la vita sociale, il lavoro con le loro categorie normative e le conseguenti coordinate spazio-temporali si possono quindi pensare come luoghi in cui si esercita una presa sul corpo e in cui si dà luogo al nascere del lavoratore, dello studente, dell’abitante.
Le relazioni corpo-spazio-tempo non rimangono però costanti; o meglio rimangono tali nella loro enunciazione, ma non nella loro strutturazione. Il vivere, infatti, è evolutivamente denso di cambiamenti che impongono nuove e continue ristrutturazioni che risultano però meno minacciose per una sorta di continuità normativa: infatti, attraverso il funzionamento normativo del corpo, diventa possibile, pur all’interno di differenziazioni, un controllo delle coordinate spazio-temporali.
Diversa è la condizione della disabilità soprattutto quella acquisita dove l’assenza normativa è causata da una sua perdita: si produce così la frattura fra un prima e un dopo che diventa traumatica in virtù del fatto che essa si svolge attorno al principio del funzionamento. Da una parte un corpo che ha perso lo statuto di norma e dall’altra le coordinate spazio-temporali del quotidiano, del sociale e del lavoro che rimangono all’interno di una caratterizzazione normativa: prima il corpo si muoveva nella categoria dell’«adeguato» ora invece la «perde» o «non regge» tale dimensione.
Questa condizione, nella duplice veste della perdita e dell’inadeguatezza, emerge chiaramente dalla ricerca come risposta all’interrogativo: «Perché non lavori più?». Le motivazioni addotte sono diverse, e le riprenderemo successivamente, ma ciò che interessa in questo passaggio è la presenza di categorie quali «non riesco», «sono paralizzato», «non sono collocabile al lavoro», «ho l’invalidità».
Il rimando alla condizione di non funzionamento e il suo confronto con il «prima» è essenzialmente un raffronto incessante con il costrutto normativo: gli sguardi degli altri, gli spazi pubblici e privati, i tempi da inseguire in una continua richiesta di adattamenti che in diverse situazioni non sono più possibili.
A tale proposito la riflessione di R.Murphy[4] risulta significativa in quanto descrive il suo viaggio nella disabilità come una specie di distacco progressivo dal mondo, in cui l’esperienza individuale si carica di valenza paradigmatica e si proietta come rappresentazione esemplare delle relazioni sperimentate da ogni persona disabile nel mondo sociale. La scoperta della patologia avviene per Murphy al culmine di una brillante carriera accademica: un nuovo percorso, però, gli si prospetta per il futuro dove si trova a confrontarsi con uno spazio e un tempo regolati da norme e gerarchie proprie, in cui gli compete il ruolo sociale peculiare del malato istituzionalizzato, del disabile.
Rispetto a questa condizione Murphy sottolinea la sospensione dei ruoli sociali ordinari, madre, padre, professore, panettiere, operaio, impiegato… e l’assunzione del ruolo di malato che, secondo il grado di infermità, lo dispensa dagli obblighi sociali. La vita sociale infatti prescrive l’adeguamento a un mondo strutturato per venire incontro alle esigenze di un corpo abile.
«… La scienza ecologica ci insegna che il nostro ambiente non è formato da entità immutevoli e inerti, ma da insiemi di relazioni viventi e variabili tra persone e oggetti. Ogni elemento della nostra architettura, ogni percorso ad accesso pubblico, dai marciapiedi ai sottopassi, è stato pensato per persone con gambe funzionanti…» (pag.59)
Confrontarsi con i limiti crescenti del proprio corpo porta Murphy al pensiero delle conseguenze estreme della propria condizione.
«… Non ricordo di aver pensato in precedenza alla disabilità fisica, eccetto che come qualcosa che capitava agli altri, meno fortunati. Per me non aveva certamente alcuna rilevanza. Una persona disabile poteva entrare nel mio campo visivo, ma la mia mente non se ne accorgeva, una specie di cecità selettiva piuttosto comune nella nostra cultura…» (p.86)
Una delle esperienze della persona con disabilità acquisita è la forma di alienazione che Murphy chiama disembodiment[5] , un allontanamento dal proprio corpo vissuto come oggetto in balia di cure esterne, un vincolo all’azione nel mondo più che il suo strumento.
Al peggiorare della mia condizione, ho cominciato a considerare il mio corpo come un sistema difettato di sostegno alla vita, la cui unica funzione è di sostenermi la testa … La mia soluzione al problema è stata la radicale dissociazione dal corpo, una specie di esternalizzazione dell’identità. Forse uno dei motivi del successo in questo adattamento è che non sono mai stato troppo orgoglioso del mio corpo. Sono di media altezza, non particolarmente avvenente e antisportivo militante. Non sono mai stato molto attraente, ma non me ne sono mai preoccupato. (pag.103).
L’analisi della condizione sociale del disabile fisico, comune anche ad altre disabilità, spinge Murphy ad utilizzare il concetto di liminalità, un concetto legato ai riti di passaggio, che nelle società arcaiche hanno la funzione di permettere e determinare la transizione da una condizione sociale ad un’altra. Nei riti iniziatici, in genere, si individuano le seguenti fasi: isolamento con relativa istruzione dell’iniziando, emergenza rituale e reicorporazione nella società. È durante il passaggio dalla prima alla seconda fase che ci si trova di fronte ad una condizione liminale, cioè ad una specie di limbo sociale in cui la persona viene lasciata ai margini del sistema sociale formale. Per Murphy il disabile si trova dunque in una condizione liminale, di vita sospesa, ad un tempo non sano e non malato, né pienamente vitale.
«… Così come i corpi dei disabili sono permanentemente deficitari, così lo è la loro collocazione sociale. La perdurante indeterminatezza del loro stato fisico si replica nella costante mancanza di definizioni dei ruoli sociali, che in ogni situazione vengono sconvolti e oscurati dalla loro identità…» (p.136)
Nella ricerca riportata in questo testo ritroviamo in alcune interviste i temi ora citati, soprattutto quelli in relazione ai processi normativi che ispirano gli sguardi e le coordinate spazio-temporali.
«… mi sentivo come sospesa… in una situazione che dovevo rendere mia. Ho presto cominciato a realizzare che ero davvero io, cioè che era successo proprio a me. Sì, a me. E allora mi sono chiesta… è questa la mia vita?» (M.)
«… mi dà fastidio chi viene a spingermi … sto andando e mi vengono dietro … io chiedo quando c’è bisogno. Per questo bisogna educare gli altri anche sul posto di lavoro e il resto … Tante volte peccano di eccesso… anche quando dicono che pregheranno per te come se avessi chissà quale cosa…» (C.)
«… mi sento in difficoltà… abituata a fare tutto, adesso non riesco più a fare tante cose … Gli amici di prima non si sono più fatti vedere… ognuno ha preso la sua strada … mi sono sentita sola.» (P.)
«… Dopo l’incidente gli amici erano presi da problema di cosa dovevano dirmi … Dopo un primo impatto han capito che ero la stessa persona di prima e da qui si è recuperato il rapporto…» (F.)
« … Sul posto di lavoro i colleghi sono disponibili, anzi, a volte sin troppo. Non ti dà fastidio, ma ti vien da dire “lasciami, mollami un po’ …» (Bo.)
« … È sempre una vita diversa. L’impatto mio verso la gente è cambiato … è inevitabile per come ti vedono gli altri. Tanti ti guardano e pensano che non puoi fare quello che stai facendo. Dici che lavori in una grande azienda e che hai quella mansione e ti dicono “Davvero?”. C’è la necessità di dover sempre dimostrare ciò che fai e quanto vali perché sei su una sedia a rotelle …» (Bo.)
Queste sottolineature risultano necessarie per una riflessione che vuole indagare la problematicità del rapporto fra lavoro e disabilità in quanto nel momento in cui lo si assume come dato (cosa non scontata) devono per forza conciliarsi rappresentazioni contrastanti:da una parte l’inabilità della disabilità e dall’altra la proprietà normativa abilista del lavoro con le componenti della competenza e dell’autonomia. Gli esiti di questa opposizione rimandano in genere ad un’immagine di inconciliabilità che diventa dominante nella percezione sociale, impedendo così la costruzione di una rappresentazione produttiva della persona con disabilità.
Infatti il complicato gioco delle concezioni, spostando l’accento sull’abilismo, condiziona il modo di interpretare le potenzialità di vita e le possibilità lavorative delle persone con disabilità; e ciò non coinvolge solamente la popolazione in generale, l’azienda e i lavoratori, ma anche chi si occupa della progettazione e delle politiche sociali. Ragionare di questo rapporto significa allora spostare l’attenzione dal ruolo del lavoro nella disabilità alle barriere e ai vincoli che impediscono il lavoro e alla condizioni che possono invece renderlo parte di un progetto di vita più ampio.
Il riferimento critico alla produttività come esito dell’essere abile in una dimensione normativa standardizzata diventa quindi centrale non solo per la sua presenza nell’ambito lavorativo, ma per il suo essere pervasivo nelle diverse pieghe della vita sociale; e questo testimonia la forza di tale costrutto nella definizione non solo di rappresentazioni, ma anche di scelte sociali e politiche. Ne è un esempio il dibattito degli anni settanta e le scelte conseguenti allorchè si trattava di aprire la scuola agli alunni con disabilità. Infatti, nonostante l’obiettivo di quegli anni fosse una scuola per tutti, l’attenzione è stata assorbita per la quasi totalità dalle classi differenziali, lasciando così in ombra il problema delle classi speciali e dell’istituzionalizzazione. Non è un caso che su diverse riviste scolastiche degli anni citati apparivano contemporaneamente riflessioni e richieste di abolizione delle classi differenziali e articoli che mettevano in guardia dal superamento delle scuole speciali.
La frattura culturale fra il concetto di svantaggio (come esito del sociale) e di handicap (come risultante di un deficit) ha prodotto una differenziazione anche nella presa in carico del problema: il primo diventa un problema urgente da essere preso in considerazione dalla politica scolastica, mentre il secondo, in quanto condizione deficitaria individuale e non nella norma, diventa di competenza specialistica. Il prevalere dell’attenzione verso la condizione di svantaggio è da mettersi in relazione al concetto di «produttore» (di beni, saperi, apprendimento e informazioni) quale condizione fondamentale per poter riconoscere ad una persona il ruolo di agente sociale: questo era ritenuto possibile per le condizioni di svantaggio in quanto potenzialmente produttive, ma non per quelle deficitarie in quanto inabili e quindi improduttive.
Si definisce qui l’impianto concettuale che ispirerà e ispira tuttora il paradigma dell’integrazione, la logica legislativa e delle politiche sociali per la disabilità che nel tempo ha mantenuto come riferimento la categoria abilista (con il suo nesso alla norma e alla dicotomia deficit/abilità).
Abilismo, produttività, autonomia, adattamento, compensazione, normalizzazione formano quindi il vocabolario effettivo dei processi integrativi delle politiche sociali attuali che testimoniano la fatica ad uscire da un’epistemologia che guarda al deficit come fattore interno alle persone e come causa principale delle difficoltà senza alcun riferimento al ruolo disabilitante dei contesti e delle interazioni che li caratterizzano. Questa prospettiva, ricondotta al tema produttivo, pone il lavoratore con disabilità in una condizione critica in quanto la presenza di un deficit condiziona percezioni e scelte:
«… «dopo l’incidente ero disponibile per il part-time nell’azienda dove lavoravo … ho provato a fare un mese in ufficio … ma la ditta dopo due mesi mi dice che se non ritornavo alla mansione di prima non potevo continuare … Questo non era possibile per le mie condizioni così ho cercato da un’altra parte un lavoro che potevo fare…» (B.)
«… Dopo la laurea ho avuto diverse proposte di lavoro. Avevo però l’impressione che, oltre alla mia alta valutazione per la tesi, mi chiamassero per la legge sul collocamento obbligatorio. Non si rendevano conto di non essere attrezzate … Una ditta ha insistito … dovevano aiutarmi per superare i gradini, non avevano accesso alla mensa e per questo mi hanno detto che se non potevo accedere dicevano ad un ragazzo di portarmi il mangiare in ufficio …» (Bo.)
Il quadro che emerge dalla ricerca conferma l’influenza produttivo-abilista e, nello stesso tempo, evidenzia anche la ricaduta che questo concetto ha sulle scelte delle persone con disabilità in tema di lavoro. Infatti dai dati emerge che solo il 39% delle persone intervistate hanno continuato a lavorare e che la modifica del lavoro passa attraverso uno spostamento dalle attività manuali a quelle di ufficio o di magazzino. I dati qui riportati descrivono una situazione prevedibile e cioè che difficilmente le modificazioni investono le coordinate spazio-temporali del lavoro e che il principio di adattamento continua ad essere richiesto al lavoratore; condizioni queste che diminuiscono le possibilità di un recupero lavorativo da parte della persona con disabilità. Anche il cambio di ruolo avviene all’interno di una struttura già disponibile (ufficio, magazzino) o in spazi che richiedono il minimo delle modifiche: in questo caso solo il 20% dei casi riporta la presenza di modifiche rappresentate per la metà circa da interventi per rampe di scale e bagno.
Certamente il panorama è molto variegato e le situazioni si diversificano in base anche ai contesti e alle tipologie produttive: diversa è la scuola dal settore commerciale, diversa è una media o grande azienda che ha già avuto esperienze di inserimento da un’attività artigianale.
«… Per le aziende non va bene dire o assumi i disabili o paghi… Non bisogna dare questa possibilità di scelta…» (B.)
«… Il datore di lavoro è stato presente: c’era quando si dovevano fare modifiche agli ambienti ed è stato uno dei primi ad interessarsi … Esprime solidarietà e non ho mai avuto problemi quando devo rimanere a casa …» (C.)
Variabili queste che incidono, ma che non possono essere utilizzate però come la spiegazione principale per la riuscita, le difficoltà o i fallimenti degli inserimenti. Queste potrebbe ricercarsi invece nella rappresentazione comune che i disabili, come persone o come gruppo, contravvengono a tutti i valori normativi di corpo e, di conseguenza, ai criteri che definiscono i principi su cui si basa l’idea di «attività», di «produttività» e di capacità gestionale dello spazio e del tempo: è l’esplicitazione di una concezione sociale in cui si condivide l’immagine di una disabilità prigioniera del suo deficit.
Come uscire da questo costrutto? Semplicemente decostruendo il principio di contraddizione espresso dal corpo disabile per assumerlo invece come fattore di «resistenza». Questo concetto viene proposto da Foucault all’interno di una riflessione sui sistemi relazionali che, secondo il filosofo, sono costantemente percorsi da relazioni di potere, dove il potere[6] perde la sua caratterizzazione assoluta per assumere quella relazionale tanto da essere sempre esposto a possibili resistenze. Ciò significa che se non ci fosse resistenza non ci sarebbe potere e che, di conseguenza, il potere si rende decifrabile a partire da chi gli resiste.
E cosa è un corpo disabile se non una forma di resistenza che non solo rende visibili e confutabili i presupposti del potere, ma che in questa resistenza trova forme affermative per la propria vita?
La resistenza si gioca quindi su più piani: su quello epistemologico che cerca di ottenere un sapere «da e su» la disabilità, sulle codificazioni disciplinari e discorsive che producono effetti di verità[7], su quello normativo che tende a normalizzare. È una resistenza allo sguardo sociale e disciplinare che verso le persone colgono nel tempo i ritardi, le assenze, le interruzioni, la staticità, la memoria fallita; nello spazio l’inefficienza, il disordine; nell’attività le negligenze, la lentezza, l’affaticamento, la disattenzione, la mancanza di applicazione, la scarsa abilità; nel comportamento la disobbedienza; nel corpo i gesti non corretti o la loro assenza.
«… Nella vita ti inculcano l’idea che devi fare da solo… ma se riesci a fare tutto da solo saltano i rapporti con gli altri. Ad esempio l’inaccessibilità può aiutare questi rapporti… Forse queste sono contraddizioni, ma…». (A.)
I punti di resistenza non si esauriscono qui, ma coinvolgono anche ciò che Foucault definisce il rapporto di «sé con sè» e la «cura di sé» nel rapporto con gli altri, fattore, questo, necessario per impedire alla forma relazionale di esaurirsi, lasciando così posto a stati di dominio. Certamente quest’ultima sottolineatura parrebbe più appropriata per ruoli codificati come quelli di medico, pedagogista, educatore, insegnante, genitore; cioè per tutti coloro che, a diverso titolo, sono investiti di un mandato istituzionale e sociale. Ma una prospettiva relazionale non limita i campi: ricerca invece le diverse e innumerevoli interazioni per renderle visibili e restituire a chi vi partecipa una forza e una responsabilità relazionale: per questo, assieme ad un’azione di resistenza verso l’esterno, vi è quella verso una possibile indeterminatezza di sé.
Nel sistema relazionale qui descritto la resistenza è verso una visione di un corpo che da soggetto di vita diventa solamente un oggetto di operazioni specifiche che hanno un loro tempo, un loro spazio e un loro linguaggio come testimoniano le diverse istituzioni.
Già nelle interviste della ricerca questo elemento emerge nel momento in cui le persone con disabilità guardano agli aspetti normativi non come obiettivi per la loro normalizzazione, ma come ostacoli alla loro vita, alla ricerca di un nuovo equilibrio.
«… non appena il mio limite fisico me lo ha permesso ho affrontato il confronto con la vita di “prima”. Il mio schema corporeo doveva accettare questa nuova “cosa”[le stampelle]… quest’oggetto esterno per poter trovare un equilibrio nuovo, diverso…» (M.).
«… io voglio essere considerato per quello che faccio, per le mie qualità fisiche e soprattutto intellettive… » (B).
I passi riportati delineano chiaramente la frattura fra norme e leggi che tendono a regolare la vita di ognuno su base normativa e le esperienze delle persone che invece si articolano attorno ad una norma che potremmo definire «dei viventi[8]». Infatti il vivente non vive in mezzo a leggi standard, ma in mezzo ad esseri e avvenimenti che diversificano queste leggi: è questa, una vita fatta da continui atti di equilibratura la cui finalità è quella di ricercare e costruire incessantemente un nuovo equilibrio in grado di rispondere alle variabili relazionali e interattive poste dall’ambiente. Ed è qui che si possono produrre «punti di resistenza» verso saperi, pratiche discorsive e non, politiche e stereotipi che tendono a normalizzare; resistenze che, in quanto atti dinamici che tendono al cambiamento della relazione, testimoniano la presenza di forme e spazi di libertà che, per paradosso, si ritrovano nell’imperfezione, nell’ambivalenza del corpo, nel non concluso, nell’errore, nella vulnerabilità: in tutto ciò che sfugge e resiste alla normalizzazione e all’occultamento.
Certamente le forme di resistenza non sono tutte uguali: ci può essere l’esigenza di affermarsi che contraddice stereotipi sia in relazione al concetto di lavoro che all’inabilità.
«… prima dell’incidente … lavoro … lavoro … lavoro… Adesso ci sono io. Ho preso consapevolezza di me, di questo corpo… dei limiti, delle sensazioni…» (A.)
«… è importante sentirti ancora vivo e il lavoro per me è un motivo di vita e di pensiero…» (B).
« … Il problema sono le barriere architettoniche, ma poi cominci a lavorare e vedi che ci sono le esigenze dell’azienda … Bisogna venirsi incontro … Sono sulla sedia a rotelle e ho dei diritti, ma non posso pensare di fare ciò che voglio …» (BO.)
Accanto all’affermazione di sè c’è anche una condizione di sospensione come scelta d’attesa che in alcune situazioni passa attraverso la certificazione di inabilità:
«.. avevo problemi fisici, dolori, mi bagnavo spesso… andare al lavoro per poi non essere costante e chiedere giorni… non valeva la pena… Perché non provare l’inabilità… Più avanti vedrò…» (A.)
Vi può essere infine la scelta di non lavorare nonostante la possibilità di farlo. Le motivazioni non sempre sono in relazione a condizioni fisiche, ma ad altre variabili come, ad esempio, il cambio drastico del ruolo lavorativo o la necessità di una nuova dimensione di sè che richiedono entrambe la costruzione di un nuovo equilibrio.
«… non sono più rientrata … ho deciso di non riprendere perché il lavoro di prima non potevo più farlo … Il mio datore di lavoro mi aveva offerto altre opportunità, ma non volevo stare seduta tutto il giorno alla scrivania a fare le stesse cose, non avere contatto con le persone, non muovermi … Così ho riorganizzato la mia vita» (F.)
« … Impossibile continuare il mio lavoro per necessità e per scelta:era il mio lavoro, lo facevo io senza colleghi o datore di lavoro. Per continuare dovevo farmi aiutare, ma non sopportavo l’idea di vedere altri che facevano il mio lavoro …» ( C.)
«… Il lavoro va bene solo perché ti serve per vivere. Prima dell’incidente c’era il lavoro … ora ciò è stravolto: sono io al centro … » (A.)
Il tema del non lavoro comporta diverse variabili: la scelta di non lavorare, ma anche l’impossibilità o l’attesa di un lavoro. È ciò che emerge dai dati della ricerca dove le motivazioni addotte dalle 84 persone che non lavorano più comprendono: « mi basta il pensionamento/accompagnamento» (57%); « non riesco/ ho problemi fisici» (18%); «non l’ho trovato/ sono in cerca» (15%).
Naturalmente all’interno della percentuale più alta sono compresenti diversi motivi, ma non è da escludere che ci possa essere una variabile legata alla «presa» economica a scapito di quella lavorativa. Se ciò fosse vero si potrebbero sollevare interrogativi in relazione al rischio che l’assistenza (invalidità e pensione) possa diventare non tanto strumento di supporto quanto tramutarsi in fattore di espulsione «economica» nella sua dimensione produttiva e, di conseguenza, in componente causale dell’ esclusione sociale.
Questa preoccupazione coinvolge naturalmente l’intera area della protezione sociale e la sua concezione: infatti sino ad ora essa è stata concepita come strumento di tutela per le fasce vulnerabili, in questo caso con disabilità, attraverso un meccanismo di compensazione rispetto al deficit. Il pensiero che ha guidato tale prospettiva è che il deficit causa l’incapacità di produrre e questo, a sua volta, genera difficoltà a reperire risorse per la vita personale: da qui la necessità di un sistema di tutela come l’invalidità e la pensione. In questa dimensione la tutela si rivela però una forma debole di partecipazione sociale in quanto non mira al superamento delle cause che escludono le persone dalla produzione, ma solo alla loro integrazione nel sistema sociale attraverso mezzi compensativi: per assurdo, attraverso questa integrazione, si determina un effetto di dipendenza tra le persone che vengono aiutate e i sistemi deputati a farlo. E non è ciò che una prospettiva inclusiva intende raggiungere.
Al contrario, ciò di cui si ha bisogno è una tutela sociale che più che creare dipendenza costruisca possibilità di autonomia attraverso rapporti che, nei contesti lavorativi e sociali, siano più ricchi, più vari, più diversificati, più flessibili in modo da creare condizioni reali per il superamento delle barriere alla partecipazione:
«… Ora quello che dovremmo aspettarci da questa previdenza è che dia a ognuno la sua autonomia nei confronti di quei pericoli e di quelle situazioni che lo pongono in una condizione di inferiorità o lo assoggettano…»[9]
Bibliografia
Medeghini R., Valtellina E. (2005). Quale disabilità? Culture, modelli e processi di inclusione. Milano: Angeli Editore
Medeghini R. (2005) (a cura di). Disabilità e corso della vita. Milano: Angeli Editore
Medeghini R. (2006). La personalizzazione del progetto di vita. In Animazione Sociale 6/7 pp.10-19
Medeghini R. (2006). Le pratiche inclusive come presupposto di cittadinanza. In Animazione Sociale 10 pp. 70-80
Medeghini R., Messina M (2007). Come uscire dalla dicotomia autonomia/dipendenza. In Animazione Sociale 10 pp. 70-80.
[1] In questo contributo (La follia e la società 1978- pp.64-84. In Alessandro Pandolfi (1998), (a cura di). Archivio Foucault 3. Milano: Feltrinelli. F. ha come riferimento la follia: i sistemi di esclusione da lui evidenziati sono però descrittivi anche delle condizioni delle persone con disabilità.
[2] Qui il termine «corpo» rimanda all’insieme delle funzioni mentali, relazionali, emotive, sociali.
[3] Sandro Chignola (2006). L’impossibile del sovrano. Governamentalità e liberalismo in Michel Foucaul. Pp37-70. In Sandro Chignola. Governare la vita. Verona: ombre corte.
[4] Robert Murphy, direttore del dipartimento di antropologia alla Columbia University narra la sua esperienza di disabilità acquisita nel testo The Body Silent. New York, Holt. 1987
[5] Qui viene tradotto come «scorporamento».
[6] Foucault distingue le relazioni di potere, in quanto giochi strategici tra le libertà, dagli stati di dominio dove le relazioni di potere sono bloccate e impediscono, a chi è coinvolto, strategie che li possa modificare. M. Foucault (1984): Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità. In Alessandro Pandolfi (1998), (a cura di). Archivio Foucault 3. Milano: Feltrinelli.
[7] Per «verità» Foucault intende «… l’insieme delle procedure che consentono a ciascuno e ad ogni istante di proferire enunciati che saranno considerati come veri». Potere e sapere (2001) p 203. In M. Bertani (a cura di). M. Foucault. Il discorso, la storia, la verità. Torino: Einaudi Editore.
[8] G. Canguilhem (1966). Le normal e le pathologique. Paris: Presses Universitaires de France. Trd. Italiana 1998. Il normale e il patologico. Torino: Einaudi.
[9]M. Foucault (1983): Un sistema finito di fronte ad una domanda infinita. In Alessandro Pandolfi (1998), (a cura di). Archivio Foucault 3. p.186. Milano: Feltrinelli.
Si ringrazia la studentessa Cristina Mazzoleni per la collaborazione